"Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada" Majakovskij

Partito della Rifondazione Comunista - Sinistra Europea
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giovedì 29 gennaio 2009

Attività isitituzionale e lavoratori atipici

di Annalisa Magri - Segretario del Circolo

Cari compagni,
ieri sera ha avuto luogo il primo di una serie di incontri dedicato agli "Enti Locali" promosso dalla mia federazione (Reggio Emilia). Lo scopo è quello di dare informazioni utili a tutti i compagni che avranno a che fare con le prossime elezioni amministrative. L'incontro si è da subito rivelato importante per chiarire a tutti le norme relative alla legge elettorale, allo status di amministratore ecc…ecc…
Ovviamente lo strumento utilizzato è stato il d.lgs. 267/2000 meglio noto come "Testo Unico degli Enti Locali" in cui all'articolo 80 (Oneri per permessi retribuiti) ci chiarisce che:“ Le assenze dal servizio di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 dell'articolo 79 (permessi e licenze per partecipare ai consigli) sono retribuite al lavoratore (e si parla di lavoratori dipendenti, pubblici e privati) dal datore di lavoro. Gli oneri per i permessi retribuiti sono a carico dell'ente presso il quale i lavoratori dipendenti esercitano le funzioni pubbliche di cui all'articolo 79. L'ente, su richiesta documentata del datore di lavoro, e' tenuto a rimborsare quanto dallo stesso corrisposto, per retribuzioni ed assicurazioni, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore.[…].” .Cari compagni, forse capirò male io, ma anche in questo caso siamo di fronte ad una diminuzione sensibile della democrazia perché un cosiddetto lavoratore atipico (che non è un dipendente e dunque non gode degli stessi diritti in merito ai permessi) avrà più difficoltà a svolgere l’attività istituzionale dovendo decidere se lavorare, quindi guadagnare, o esercitare i diritti/doveri che sono propri di un consigliere. In sostanza, un lavoratore dipendente viene rimborsato dal proprio datore di lavoro per la giornata del consiglio (si ha diritto ad un permesso retribuito) che poi verrà rimborsato, a sua volta, dall’ente. Domanda: un lavoratore atipico che viene pagato per le ore lavorate e il cui contratto non prevede ferie, permessi, malattia, maternità ecc...ecc... da chi riceve il permesso di assentarsi dal posto di lavoro per svolgere l’attività istituzionale e da chi riceve il rimborso per le ore non lavorate? Forse mi è sfuggito qualcosa nel mare delle norme che regolano la vita amministrativa e forse qualcuno potrà rincuorarmi assicurandomi che, da precaria quale sono, potrò con serenità rendermi disponibile ad essere candidata senza temere per una eventuale elezione. Vi ringrazio.

mercoledì 28 gennaio 2009

Caro compagno Morales

La lettera di Paolo Ferrero a Evo Morales, Presidente della Bolivia, per congratularsi della vittoria nel referendum di approvazione della Nuova Costituzione Boliviana.

Caro Compagno Morales,

con grande allegria e speranza voglio inviarTi i miei auguri per la Tua vittoria e quella della maggioranza del popolo boliviano hanno ottenuto nel referendum costituzionale per l’approvazione della Nuova Costituzione Politica dello Stato.

Questa nuova vittoria da animo alle lotte che da secoli i/le boliviani/e realizzano per affermare un nuovo modello de sviluppo, eco-sostenibile, solidario e libertario. E’ una vittoria di tutti/e gli/le sfruttati/e, dei contadini che lottano per liberarsi dal latifondo, dei lavoratori e delle lavoratrici e dei/lle cittadine che non vogliono regalare le risorse naturali, dei milioni di indigeni di tutta l’America Latina e del mondo, di tutti/e quelli/e che aspirano ad un mondo senza ingiustizia sociale, oppressione, guerre e sfruttamento..
Un passo ulteriore verso la “rifondazione della Bolivia” con il principio del “vivir bien”.
Questa vittoria ci da animo per lottare in Italia ed in Europa e riaffermare i diritti dei migranti contro la cosiddetta “direttiva del ritorno” approvata dall’ Unione Europea.
Signor Presidente e caro compagno Evo Morales, sii certo che moltiplicheremo i nostri sforzi affinché i/le nostri/e militanti e i/le cittadini/i in generale possano conoscere il programma di innovazione profonda che si sta realizzando en Bolivia.
La nostra partecipazione al Foro Sociale Mondiale di Belém, sarà un occasione per rafforzare i rapporti con i Tuoi connazionali e con i rappresentanti dei movimenti sociali dell’ Europa e dell’ America Latina.
Ancora una volta Ti ringrazio a nome del nostro Partito e di coloro i quali in Italia lottano per “un altro mondo possibile” e per il socialismo.

Un saluto con affetto e stima,

Paolo Ferrero Segretario Nazionale PRC-SE

martedì 27 gennaio 2009

Uguaglianza e libertà: ecco il cuore vitale della rifondazione comunista

di Dino Greco, direttore di Liberazione

«Io, sinceramente, non so chiamarla in altro modo che scissione». Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc, definisce così la scelta di Nichi Vendola e degli altri esponenti della minoranza del Prc che da Chianciano hanno definito il loro gesto come un addio, un "partire" verso nuovi lidi e nuove imprese politiche. Una scelta che per il segretario del Prc è frutto di un importante "errore di valutazione" sulle ragioni della sconfitta. E che colloca l'iniziativa degli scissionisti su un terreno di subalternità al moderatismo del Pd, anziché su quello della costruzione democratica di una nuova "utilità sociale della sinistra". Obiettivo rispetto al quale il fallimento delle esperienze di governo e di alternanza dimostra che "non c'è scorciatoia a un cammino non politicista di costruzione di diversi rapporti di forza tra la sinistra di alternativa e il centrosinistra".

Una divisione non può mai essere giudicata in modo positivo. Quali sono a tuo avviso gli elementi che hanno prodotto questa frattura?
Penso che il punto di fondo che ha portato alla scissione riguardi due elementi.
Il primo è la totale incomprensione delle ragioni della sconfitta elettorale. Non si è capito che la Sinistra arcobaleno ha perso innanzitutto perché non era stata in grado di svolgere un ruolo positivo nella vicenda del governo Prodi. Cioè non si è capito che quel percorso che noi pensavamo servisse a costruire l'alternativa si è rivelato una pura alternanza in cui le nostre istanze di cambiamento sono state ignorate. L'alternanza si è mangiata l'alternativa. Questo a mio parere è l'errore politico di fondo a causa del quale questi compagni, anziché pensare di dover ricostruire le ragioni dell'alternativa, come ha fatto il Prc dopo il ‘98, propongono uno sbocco politico di ulteriore riavvicinamento al Pd; sino all'ipotizzare di costruire un partito di cui sia leader D'Alema.

E il secondo elemento?
Riguarda l'abbandono di qualsiasi riferimento al comunismo. Il Prc ha potuto giocare il proprio ruolo proprio in quanto ha tenuto insieme i due termini: rifondazione e comunista. E attraverso ciò ha prefigurato un'uscita da sinistra dalla crisi del comunismo e ha combattuto l'occhettismo. Mi pare invece che questa scissione si collochi del tutto dentro il filone occhettiano. Ma accanto a questo c'è anche un ulteriore elemento, che attiene alla cultura politica.

E cioè?
Cioè l'incapacità di fare i conti fino in fondo con la democrazia e quindi di accettare la possibilità di essere minoranza. Questo segnala, secondo me, una discrasia enorme tra parole e fatti, perché uno degli elementi della rifondazione comunista su cui abbiamo sempre insistito è proprio la intangibilità del tema della libertà, quindi della democrazia. Credo di poter rilevare questa distanza tra parole e fatti anche nel tipo di polemica rivolta al Prc: la falsità nell'attribuzione delle posizioni e la denigrazione hanno caratterizzato quest'ultimo periodo in modo tragicamente monotono. Evidentemente in questa cultura politica ristagna un pezzo di stalinismo pratico.

Un giudizio aspro. Da segretario del partito, che valutazione complessiva fai della rottura e delle sue conseguenze?
La considero grave e dolorosa. Penso sia contraddittoria, in quanto si fa una scissione in nome dell'unità della sinistra. Eppoi perché, come sempre, quando c'è una scissione il risultato vero è che in primo luogo si rischia di mandare a casa un sacco di persone, di deluderle, demotivarle. La definizione che mi sento di usare è la medesima che usammo nel documento del IV congresso di Rimini, dopo la scissione di Armando Cossutta. Dicemmo: "La scissione si è rivelata inoltre dannosa per l'insieme della sinistra. Nel contesto della crisi della politica, ha introdotto ulteriori elementi di non credibilità dell'insieme della sinistra, della sua capacità di confronto, di determinare aggregazioni, risposte unitarie, intese. Ancora una volta affiora invece la tendenza alla separazione nell'insieme della sinistra, alla divisione delle esperienze organizzate, alla prevalenza dell'incomunicabilità, appena appare un dissenso, senza misurare fino in fondo il suo grado di compatibilità con gli obiettivi strategici".

Richiami appunto un'altra rottura del passato. Sembra che la sinistra abbia un'incapacità di superare la dicotomia autonomia-unità e una difficoltà a corrispondere alle istanze unitarie del proprio popolo. Sembra che le sconfitte ingenerino piuttosto sentimenti di rivalsa come in effetti si sono registrati già nel clima congressuale…
Penso che il nostro problema sia di saper coniugare l'esercizio della democrazia nelle scelte interne - cioè il fatto che i congressi devono servire a decidere in modo chiaro la linea politica - e la scelta della gestione unitaria del partito. Non va applicato lo schema per cui chi vince prende tutto. Bisogna invece tenere insieme la scelta dell'indirizzo politico con la tutela della comunità. E' per questo che avevo proposto la gestione unitaria dopo il congresso e la ripropongo oggi. A differenza di quel che facemmo dopo Venezia, quando alle minoranze venne indicata la porta. In questo, secondo me, c'è un passaggio della rifondazione sinora rimosso e che dobbiamo assolutamente praticare. Senza arrenderci.

Proprio a partire dalla valutazione della sconfitta, si pone però anche il tema dell'efficacia politica della sinistra, che tu stesso hai sollevato sin dal congresso.
Penso che oggi il tema fondamentale sia la costruzione di un'efficace opposizione di sinistra. E che questo tema lo si possa affrontare unicamente se si ha la più piena autonomia dal Pd, che sulle questioni principali - penso al federalismo, la riforma della contrattazione, la riforma della giustizia - bene che vada, è incapace di assumere una posizione efficace, mentre nella peggiore delle ipotesi è dannoso. La questione è come si costruisce una sinistra autonoma dal Pd che sappia, come abbiamo fatto a partire dalla manifestazione dell'11 ottobre, entrare in relazione positiva con le mobilitazioni della Cgil e del sindacalismo di base. Importantissimo sarà lo sciopero generale della Fiom e della Funzione pubblica del 13 febbraio. Quindi il tema è quello della costruzione unitaria di un movimento di massa contro il Governo e la Confindustria, come abbiamo fatto dopo Genova. Qui sta il tema politico dell'efficacia. Che non richiede solo autonomia dal Pd, ma comporta la costruzione di un progetto che preveda da un lato la ricostruzione del senso della politica e dall'altro l'uscita da sinistra dalla crisi. Per questo abbiamo proposto e continuiamo a proporre il coordinamento di tutte le forze di sinistra: per ricostruirne l'utilità sociale.

Quindi non escludi a priori rapporti unitari a sinistra?
Certo che no, ma questi non vanno letti in chiave politicista. Ricostruzione del senso della politica, per me vuol dire non essere accecati da una centralità ossessiva delle relazioni istituzionali, ma saper ridislocare la nostra azione nella società, sia nella costruzione del conflitto sia nella costruzione di forme di mutualismo. Quello che abbiamo chiamato il partito sociale. Per quanto riguarda il progetto di uscita da sinistra della crisi, il punto è coniugare la battaglia per la redistribuzione del reddito e del potere con la proposta di un intervento pubblico centrato sulla riconversione ambientale e sociale dell'economia. In questo quadro, visto il ruolo che il razzismo e il sessismo hanno nella costruzione politica del blocco dominante, è evidente che non vi può essere alcuna separazione tra la lotta per la libertà e quella per l'uguaglianza, tra gli interessi materiali e i valori.

Tu dici che l'alternanza si è mangiata l'alternativa. La destra, tuttavia, è riuscita a realizzare nell'alternanza una vera e propria alternativa radicale. Perché le forze progressiste non dovrebbero esserne capaci?
E' vero. In America latina la sinistra usa il terreno elettorale per costruire l'alternativa. Credo che il problema sia dato dai rapporti di forza tra la sinistra moderata e quella radicale. Con i rapporti di forza attuali non c'è nessuna possibilità di poter utilizzare l'alternanza per costruire l'alternativa. Ce lo hanno dimostrato i due governi Prodi. Quindi non c'è scorciatoia a un cammino per costruire diversi rapporti di forza tra noi e il centrosinistra, per rilanciare il progetto della rifondazione comunista.

In che senso rifondazione e in che senso comunista?
La dialettica tra questi due termini è il punto costitutivo del nostro partito. Se ne abbandoni uno la dialettica non esiste più, perché essi si qualificano a vicenda. Il comunismo parla della centralità della trasformazione sociale, dell'anticapitalismo. Rifondazione parla della necessità di imparare dai nostri errori guardando alla storia del comunismo medesimo, proprio per non ripeterli e per abbandonarne gli elementi negativi che in quella storia si sono manifestati, in primo luogo dove si è preso il potere. Ma non solo. Non è un caso che nel congresso abbiamo detto no alla costituente di sinistra e no alla costituente comunista. Perché entrambi questi progetti avrebbero sfigurato, annichilito, il progetto politico della rifondazione.

Detto in sintesi, quale progetto?
Se dovessi definirlo brevemente direi la prevalenza della ricostruzione del tessuto dell'alternativa sulle relazioni politiche, la chiarezza strategica sull'alternatività del nostro progetto rispetto a quello del Pd, l'unità inscindibile tra lotta per la libertà e lotta per l'eguaglianza, l'ingaggio contro lo sfruttamento nelle sue diverse connotazioni (del lavoro, dell'uomo sulla donna, dell'uomo sulla natura…), la centralità della battaglia per la pace. E la consapevolezza della non autosufficienza del Prc. Questo vuol dire non solo lavorare a coordinare la sinistra e l'opposizione, ma che bisogna riconoscere il pari valore delle mille forme di attività e di iniziativa politica dell'associazionismo e dell'autorganizzazione, nonché dei diversi percorsi con cui si può maturare una scelta anticapitalista. E in Italia, per esempio, salta agli occhi quella del volontariato cattolico e di matrice religiosa. Lo ripeto, per me punto di fondo è che non vi sono scorciatoie a questa dialettica tra rifondazione e comunismo.

domenica 25 gennaio 2009

L'esercito del male

di Dino Greco - direttore di Liberazione

Era nell'aria. Che è mefitica. Berlusconi usa gli episodi di violenza sulle donne per scatenare una vera e propria campagna liberticida, che con l'obiettivo di mettere argine alle aggressioni a sfondo sessuale c'entra come i cavoli a merenda. Per il presidente del Consiglio è in corso una vera e propria guerra, alla quale rispondere con strumenti coerenti. Ad un non meglio definito «esercito del male» che minaccia mortalmente la civile convivenza serve opporre l'esercito vero, quello di Stato. Dunque, non più tre, ma trentamila uomini armati a presidiare le città italiane. Coordinati - aggiunge un La Russa in preda ad esaltazione mistico-bellica - dalla Guardia di Finanza, dalla Polizia penitenziaria, dalla Polizia locale. Tanto da suscitare la reazione del ministro degli Interni che chiede (udite! udite!) di unire alla presenza militare anche misure capaci di affrontare il tema del degrado ambientale nel cui brodo si producono situazioni di pericolosità sociale.
La fabbrica della paura, sapientemente alimentata, marcia a pieni giri. E' la paranoia di stampo bushista in versione nostrana. Ricordate la crociata contro gli «Stati canaglia?». Quella fu propedeutica alla teorizzazione della guerra preventiva e di una politica di aggressione che sta provocando lutti e catastrofi sociali immani su scala planetaria; questa - con identica intenzione fraudolenta - prova ad instaurare un clima di infondato terrore per giustificare una militarizzazione della società. Non vi è persona talmente avara di buon senso da non capire che non sarà mai l'esercito a contrastare "la criminalità diffusa" o la violenza, in particolare quella sulle donne, che oltre tutto si consuma - non lo si dimentichi - in massima parte tra le mura domestiche.
E allora, perché questo forsennato accanimento? Perché questa scoppiettante prosopopea con cui si annuncia la lotta dura del governo contro il crimine, in un paese surrealmente dipinto come la Gotham City batmaniana? Con tutta evidenza, il battage ha altri e diversi obiettivi. Il primo è la collaudata opera di depistaggio dell'opinione pubblica, dei cittadini, ai quali si propinano emergenze immaginarie per occultare quelle reali, che hanno a che fare, più ruvidamente, con la precarietà materiale ed esistenziale in cui la crisi sta precipitando milioni di persone senza trovare nelle misure del governo risposte adeguate. Il secondo ha ben altra gravità, perché rivela la filigrana della politica governativa in materia di sicurezza: vis persecutoria contro i migranti, reato di immigrazione clandestina, limitazione degli spazi pubblici alle manifestazioni, contrasto all'esercizio del diritto di culto. E poi, il pacchetto giustizia del governo, che mentre ingessa le prerogative e gli strumenti di indagine della magistratura inquirente, lancia un piano edilizio per la proliferazione degli istituti di pena (da privatizzare!), più per moltiplicare (per dieci, anche in questo caso?) il numero dei reclusi che non per affrontare il drammatico problema del disumano sovraffollamento delle carceri.
La verità è che siamo di fronte ad un salto di qualità nell'escalation autoritaria, nella torsione antidemocratica, nella compressione dei diritti e delle libertà costituzionali. Si guardi a quel che sta accadendo, nelle parti e nell'insieme, e se ne avrà per intero l'inquietante percezione. Una (piccola?) chiosa finale: il giorno dopo un accordo contro i lavoratori e contro il più grande sindacato italiano il governo militarizza le piazze. Coincidenze?

sabato 24 gennaio 2009

Accordo annunciato, ma non meno grave. Ora la parola passi ai lavoratori.

di Roberta Fantozzi - Resp. Lavoro Prc

L'accordo separato firmato da governo, Confindustria, Cisl, Uil, Ugl, non è un evento inaspettato preceduto come è stato dalla lunga serie di accordi separati di categoria. Tanto meno lo è dopo l'offensiva lanciata nei giorni scorsi da Confindustria, Cisl e Uil, e le dichiarazioni di Walter Veltroni. Ma è fortissimo il senso dello strappo, per l'accelerazione che si è prodotta, come per la gravità estrema di quanto è accaduto.
Berlusconi cerca di realizzare nuovamente l'obiettivo che segnò il suo governo nel 2002, quando con il Patto per l'Italia puntò ad isolare e marginalizzare la Cgil. Lo vuol fare, oggi come ieri, per realizzare un disegno "costituente" che mira a determinare in senso fortemente regressivo non solo la condizione materiale del mondo del lavoro, ma natura e ruolo dei soggetti sociali e dunque lo statuto della democrazia nel nostro paese. Un disegno persino esibito dalla coincidenza temporale della firma dell'accordo e del primo via libera dato dal parlamento al federalismo. Entrambe scelte "costituenti" che puntano a dividere e frammentare, mettere in contrapposizione i territori come i lavoratori, distruggere i residui elementi universalistici e solidaristici del nostro modello sociale. Entrambe scelte che hanno registrato l'assenza grave dell'opposizione parlamentare.

L'accordo firmato riprende, solo sintetizzandolo, il documento di Confindustria che aveva già visto convergere Cisl e Uil. Il contratto nazionale di lavoro viene svuotato di ogni ruolo: non serve a redistribuire la produttività, non serve nemmeno a difendere salari e stipendi dall'inflazione reale. E' viceversa lo strumento della generalizzata e ulteriore riduzione dei salari, legati ad un'indice dell'inflazione "depurato" dall'aumento dei costi dell'energia importata. La contrattazione aziendale, che riguarda meno del venti per cento delle imprese, consente aumenti salariali solo in relazione alla "produttività" e "redditività" delle imprese, all'aumento dello sfruttamento e della fatica del lavoro, ad ulteriori sgravi fiscali e contributivi per le imprese, che si esige diventino "strutturali, certi, facilmente accessibili". Il contratto nazionale potrà essere derogato solo in peggio, mentre nulle sono le garanzie per la stragrande maggioranza dei lavoratori che non accedono alla contrattazione di secondo livello. Si rimanda ad altra sede la definizione delle "modalità per garantire la tregua sindacale", ma la sostanza resta quella di sanzionare e limitare pesantemente il diritto di sciopero. Viene reiterata la previsione di "ulteriori forme di bilateralità per il funzionamento dei servizi integrativi di Welfare", nodo centrale anche del Libro Verde del ministro Sacconi.
Il sindacato non è più, secondo l'accordo, il rappresentante autonomo degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione di conflitto e contrattazione. E' insieme alle imprese il gestore di servizi, di uno stato sociale che vede ritrarsi ruolo e garanzie pubbliche e viene consegnato a logiche privatistiche, a quegli enti bilaterali in cui si sostanzia il ridisegno neocorporativo dell'insieme delle relazioni sociali. Non è un caso che il governo abbia varato in agosto un taglio micidiale delle risorse per sanità, enti locali, istruzione, lavoro pubblico.
L'accordo separato è destinato ad aggravare la situazione economica e sociale complessiva, perché impoverisce ancora di più i lavoratori, in una crisi che è determinata esattamente dall'acuirsi delle disuguaglianze, da quel "mondo di bassi salari" prodotto da un trentennio di politiche neoliberiste.
La partita non è tuttavia chiusa. Non lo è come non lo fu nel 2002, sebbene sia evidente il quadro peggiore di oggi rispetto a ieri, per la sconfitta della sinistra, per la collocazione del Pd. Non lo è in virtù della tenuta decisiva che la Cgil ha avuto. Non lo è in virtù della disponibilità alla lotta che le lavoratrici e i lavoratori hanno dimostrato, aderendo il 12 dicembre allo sciopero generale della Cgil e dei sindacati di base. Diventa decisiva l'attivazione di una risposta forte nei luoghi di lavoro e nei territori. Una risposta adeguata alla gravità di quanto avvenuto, alla volontà di riscrivere le relazioni sindacali e i rapporti sociali contro la più grande organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori, impoverire e dividere ulteriormente il mondo del lavoro, distruggere ruolo e autonomia del sindacato. Crediamo sia necessaria la costruzione di un nuovo sciopero generale. Crediamo sia obbligatorio il pronunciamento delle lavoratrici e dei lavoratori sull'accordo. Per parte nostra ci saremo. E' in gioco il futuro dei diritti del lavoro e della democrazia.

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venerdì 23 gennaio 2009

Contratti: L'accordo separato lo pagheranno i lavoratori

dichiarazione di Paolo Ferrero - Segretario Nazionale PRC-SE

L’accordo separato sulla contrattazione dirotta ancor più i costi della crisi verso i lavoratori e le loro famiglie, indebolendoli ulteriormente rispetto alle imprese.

La firma dell’accordo quadro avvenuta in serata a palazzo Chigi senza la Cgil rappresenta l’effettivo compimento della linea del governo Berlusconi, che persegue da lungo tempo la divisione dei sindacati. Saranno infatti i lavoratori a trovarsi in condizione di ulteriore debolezza rispetto alla crisi: divisi e sottoposti a ricatti, arbitrarietà, volubilità delle imprese.

Nel giorno in cui il senato dà il primo via libera al federalismo fiscale, l’accordo separato fa da corollario aprendo la strada alla reintroduzione delle gabbie salariali e alle politiche sperequative perseguite dalla destra.

Rifondazione Comunista ringrazia e sostiene la Cgil per non aver firmato un’intesa che determinerà un’ulteriore riduzione dei salari reali, un peggioramento delle condizioni di lavoro, un approfondimento delle disuguaglianze del paese. E s’impegna sin d’ora a organizzare l’opposizione concreta all’accordo nei luoghi di lavoro e in tutto il paese. Si può soltanto augurarsi che tutta l’opposizione faccia sentire unitariamente la propria voce al fianco dei lavoratori e della Cgil, che Pd e Idv si pronuncino chiaramente contro l’accordo e s’impegnino da subito a contrastarlo in modo risoluto e efficace.

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giovedì 22 gennaio 2009

Il Partito Democratico lascia sola la CGIL

di Dino Greco, direttore di Liberazione

Veltroni si schiera e va all'attacco del lavoro. Su tutto il fronte. La lunga intervista concessa ieri al Sole 24 Ore , malgrado qualche passaggio criptico, non lascia margini d'equivoco. La latitudine dell'intervento è vastissima. Innanzitutto le pensioni, tema sensibile su cui da oltre tre lustri si sforbicia a oltranza. La disponibilità dichiarata è quella ad un «adeguamento dei coefficienti che darebbe un po' di respiro ai conti pubblici». In soldoni, ciò vuol dire che per destinare qualche risorsa all'estensione degli ammortizzatori sociali per la platea che ne è ancora priva bisogna decurtare il valore delle pensioni. Ancora una volta la tesi è che l'operazione si deve fare "a costo zero", spalmando quel che c'è, togliendo da una parte ciò che si mette dall'altra: tutto rigorosamente dentro il perimetro del lavoro. Poi Veltroni si allarga, e in una esternazione dall'afflato formalmente unitario chiede al sindacato di superare vecchie incrostazioni ideologiche e riprendere il cammino unitario. Ma l'appello, con tutta evidenza, non è neutro. E' sulla Cgil che si fa pressione. Dopo una sequenza impressionante di accordi separati (commercio, lavoratori pubblici, scuola, Telecom, ecc.) ed altri in gestazione (sul testo unico in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro e in alcuni grandi gruppi industriali), Cisl e Uil si apprestano ora a sottoscrivere con le associazioni imprenditoriali - complice il governo - un accordo generale sul modello contrattuale. Veltroni non può non saperlo. Ma proprio mentre Guglielmo Epifani spiega le robuste ragioni che impediscono alla Cgil di unirsi al coro, egli rivolge alla Cgil l'invito a piegarsi al diktat confindustriale. Che, come è noto, delinea e formalizza un modello negoziale imperniato sulla progressiva eutanasia del contratto nazionale, sulla riduzione programmata dei salari, su una contrattazione integrativa limitata ad un'area ristretta di lavoratori e di lavoratrici, subordinata ad un aumento della fatica, delle ore lavorate e legata alle performance dei bilanci aziendali. Veltroni non può non vedere che quell'intesa incide nella carne viva delle relazioni industriali, muta il carattere stesso del sindacato, ne compromette l'autonomia, prefigura un sindacato consociativo che sostituisce la contrattazione con una rete di commissioni bilaterali. Ma è esattamente questo sindacato, aconflittuale, collaborativo, sterilizzato della sua identità progettuale, ad inscriversi perfettamente nella cosiddetta cultura "riformista".
Fa una certa impressione osservare come l'ostentato obamismo, condito in salsa veltroniana, al dunque si traduca in un plateale ripiegamento sulle posizioni della Confindustria e del governo che dell'attacco ai diritti del lavoro hanno fatto il focus del proprio condiviso disegno strategico. Né si capisce come la cecità si possa spingere sino al punto di ignorare che dall'impoverimento salariale, da un ulteriore freno ad una più giusta redistribuzione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale, vengono guai, guai seri, per tutta l'economia e per la coesione dei rapporti sociali. Poi, la chicca finale. Veltroni mette il marchio del Pd sulla riforma del rapporto di lavoro modello Tito Boeri e Pietro Ichino: un contratto «tendenzialmente» a tempo indeterminato per tutti, ma con tutele dai licenziamenti illegittimi che si guadagnano solo strada facendo, nel tempo. Ci risiamo: è di nuovo l'attacco all'articolo 18, è la riedizione del sogno confindustriale di disporre di uno zoccolo di lavoratori da poter licenziare senza giusta causa. E', di nuovo, l'idea malsana che per estendere i diritti a chi ne è privo sia necessario toglierli a qualcun altro. Sotto traccia, ma neppure tanto, vive la convinzione che i giovani debbano passare attraverso le forche caudine di una selezione delle imprese. Le quali, solo dopo, confermeranno a propria discrezione il posto a chi avrà garantito fedeltà. O complicità, come piace dire al ministro Sacconi. «Patto fra produttori» lo ha definito Veltroni: bizzarra idea della reciproca convenienza.

mercoledì 21 gennaio 2009

Il tempo dei virtuosi

di Gideon Levy - Haaretz, 9/1/2009

Questa guerra, forse più delle precedenti, mette a nudo i veri profondi stati d'animo della società israeliana. Razzismo e odio alzano la testa, così come l'impulso per la vendetta e la sete di sangue. L'inclinazione di coloro che comandano nelle Forze di Difesa Israeliane ora è "uccidere il più possibile", come raccontano i corrispondenti militari alla televisione. E anche se il riferimento è ai combattenti di Hamas, questa propensione resta agghiacciante.

L'aggressione e la brutalità sfrenate si giustificano come "prestare attenzione": lo spaventoso bilancio di sangue – circa 100 palestinesi morti per ogni israeliano ucciso non solleva alcuna obiezione, come se avessimo deciso che il loro sangue vale 100 volte meno del nostro, riconoscendo così il nostro innato razzismo.

Destroidi, nazionalisti, sciovinisti e militaristi sono i soli legittimi bon ton sulla piazza. Non infastiditeci con umanità e compassione. Solo ai margini del campo si può udire una voce di protesta – illegittima, ostracizzata e ignorata dai media – di un piccolo ma coraggioso gruppo di ebrei e di arabi. Accanto a tutto questo echeggia un altra voce, forse la peggiore di tutte: è quella dei virtuosi e degli ipocriti. Ari Shavit, mio collega, sembra esserne l'eloquente portavoce. Questa settimana, Shavit ha scritto su questo giornale ("Israele deve duplicare, triplicare, quadruplicare il suo aiuto medica a Gaza", Haaretz, 7 Gennaio): "L'offensiva israeliana in Gaza è giustificata . . . . Solo un'iniziativa umanitaria immediata e generosa dimostrerà che anche durante la guerra brutale che ci è stata imposta ci siamo ricordati che dall'altra parte ci sono esseri umani."

Per Shavit, che ha difeso la giustezza di questa guerra, insistendo che non dovesse essere perduta, il prezzo è irrilevante, come lo è il fatto che non ci sono vittorie in guerre così ingiuste. E osa, allo stesso tempo, predicare "mitezza".

Desidera forse che uccidiamo senza tregua, e in seguito impiantiamo ospedali da campo e spediamo medicine per curare i feriti? Sa che una guerra contro una popolazione inerme, forse la più inerme al mondo, che non ha dove fuggire, può solo essere crudele e spregevole. Ma costoro vogliono sempre uscirne bene. Sganceremo bombe sulle abitazioni, e poi cureremo i feriti a Ichilov; bombarderemo miseri locali di rifugio nelle scuole dell'ONU, e poi riabiliteremo i disabili a Beit Lewinstein. Spareremo per poi piangere, uccideremo per poi deplorare, abbatteremo donne e bambini come macchine assassine automatiche, mantenendo pure la nostra dignità.

Il problema è che in questo modo proprio non funziona. Queste sono un'ipocrisia e un autocompiacimento sfacciati. Quelli che invocano in modo incendiario una violenza sempre maggiore, senza considerarne le conseguenze, dovrebbero almeno essere più onesti a questo riguardo.

È come volere la botte piena e la moglie ubriaca. La sola "purità" in questa guerra è la "purificazione dai terroristi", che nella realtà significa causare spaventose tragedie. Ciò che accade a Gaza non è una calamità naturale, un terremoto o un'alluvione, in cui sarebbe nostro dovere e diritto tendere una mano per soccorrere i colpiti, mandare squadre di soccorso, come tanto amiamo fare. Fra tutte la peggiori sfortune, tutti i disastri che accadono adesso a Gaza sono causati dall'uomo: da noi. Non si può offrire aiuto con mani macchiate di sangue. Dalla brutalità non può nascere compassione.

Eppure ci sono ancora alcuni che vogliono l'uno e l'altro. Uccidere e distruggere indiscriminatamente e pure uscirne apparendo buoni, con la coscienza pulita. Andare avanti con i crimini di guerra senza percepire affatto il grave senso di colpa che dovrebbe accompagnarli. Ci vogliono nervi saldi. Chiunque giustifichi questa guerra giustifica anche tutti i suoi crimini. Chiunque la sostenga, credendo che i massacri compiuti siano giusti, non ha alcun diritto di parlare di moralità e mitezza. Non è possibile uccidere e nutrire nello stesso momento. Questa posizione rappresenta in modo fedele come pensano di base in modo doppio gli israeliani, da sempre. Commettere ogni ingiustizia, ma ritenersi puri. Uccidere, demolire, affamare, imprigionare e umiliare ed essere nel giusto; per non parlare dei virtuosi. I guerrafondai colmi di virtù non potranno permettersi questi lussi.

Chiunque giustifichi questa guerra ne giustifica anche ogni crimine. Chiunque la veda come una guerra difensiva deve essere moralmente responsabile delle sue conseguenze. Chiunque adesso incoraggi i politici e l'esercito a continuare sappia che dopo la guerra avrà il marchio di Caino sulla fronte. Tutti quelli che appoggiano la guerra ne sostengono pure l'orrore.

(testo inglese: http://www.haaretz.com/hasen/spages/1054158.html

traduzione di Andrea Piccinini e Paola Canarutto)

martedì 20 gennaio 2009

Ferrero su Enìa 22 Gennaio 2009

La fusione Iride-Enìa va verso una trasformazione societaria le cui conseguenze saranno molto rilevanti per i cittadini, i lavoratori delle aziende interessate e per l’ambiente.


I Comuni vedranno fortemente ridotto il loro poteri di indirizzo, programmazione e controllo.
La finalità di questa aggregazione e privatizzazione sarà quella, come si legge nei documenti, di “creare valore per gli azionisti”.

La fusione Iride-Enìa porterà un aumento delle bollette per i cittadini, il peggioramento delle condizioni dei lavoratori e danni all’ambiente per garantire il business agli azionisti.

Per creare valore per gli azionisti, la società farà tutto il possibile per ridurre i costi di gestione, in particolare il costo del lavoro. Quindi si assisterà ad un peggioramento generale delle condizioni dei lavoratori.

E per fare business la società punterà su interventi molto redditizi ma pesanti sul piano ambientale, come la massimizzazione della produzione di energia, di distribuzione di gas, di consumi di acqua e di incenerimento rifiuti per fare business. L’ambiente e le sue risorse saranno intese unicamente come occasione di guadagno.

Noi proponiamo che si faccia un vero e proprio piano industriale e si operi perchè la nuova società orienti tutte le risorse per le energie rinnovabili, il riutilizzo dei materiali post consumo invece di bruciare i rifiuti, per mantenere l'acqua come bene comune. Abbiamo decine di proposte in questo senso per una nuova industria ecocompatibile.

Per ultimo la questione morale : l'esposto alla procura della Repubblica sulla compravendita di azioni da parte del presidente di Enìa o di altri amministratori sta nella linea politica già enunciata da Enrico Berlinguer, la questione morale. Oggi diciamo basta al bipolarismo degli affari.


Per questo avremo la presenza di Paolo Ferrero
Segretario Nazionale del PRC-SE
il 22 gennaio all’hotel Astoria


venerdì 16 gennaio 2009

Per Liberazione

di Dino Greco - Direttore di Liberazione

Mi accingo con salutare preoccupazione a dirigere questo giornale. Lo farò con tutto lo scrupolo, la passione, la dedizione che sono dovuti. A maggior ragione di fronte alle difficoltà politiche, economiche, ambientali dentro cui si consuma il passaggio di responsabilità.
Per chiarezza verso i lettori e per il rispetto nei confronti di quanti hanno fortemente contrastato questo esito, voglio subito rendere esplicito ciò che penso. Non ha alcun fondamento il timore che il giornale si trasformi in una sorta di instrumentum regni del partito, gestito con furore censorio da un commissario, custode dell'ortodossia. Se questo fosse stato mai il criterio che ha ispirato la proposta, la scelta del sottoscritto non avrebbe potuto essere più inadatta. Non è questo che mi è stato chiesto e non è certo con questo spirito che ho accettato. Una cosa non potrà aver luogo: che il giornale persegua con metodo lo scioglimento del suo editore perché con tutta evidenza questo genererebbe un cortocircuito letale. Una cosa è la dialettica, la polemica ruvida; una cosa è la difesa della libertà di espressione di cui si nutre ogni vitale processo creativo, un'altra è l'attacco frontale alla stessa ragione di esistenza del partito, dipinto come un'accolita di nostalgici adoratori di icone ideologiche, orfani di pensiero critico, «orticello avvizzito» che fa strame del «grande sogno di Rifondazione Cominista».
C'è una pessima abitudine, a sinistra: quella di indicare in coloro che ti sono più prossimi i colpevoli di ogni disastro e, contemporaneamente, di assolvere se stessi da ogni responsabilità ritenendosi in ogni stagione depositari esclusivi del giusto e del bene.
Dubito che questa compulsiva propensione a forgiare la caricatura dell'altro per infilzarne meglio il fantoccio abbia mai prodotto alcunché di positivo. Essa ha semmai alimentato smarrimento, senso di frustrazione, abbandono. La prima cosa da fare è interrompere la circolazione dei veleni, finirla con la reiterazione di una querelle introflessa, del tutto priva di produttività politica. Per invece seguire, sostenere, offrire visibilità ai luoghi, alle esperienze di lotta sociale, alle pratiche di riorganizzazione della democrazia dal basso.
C'è un tema di fondo, da prendere di petto: è la sciagurata rimozione del lavoro dalla stessa cultura della sinistra, vale a dire del terreno dove si gioca, si vince o si perde la battaglia decisiva. Una sinistra che non ricostruisca lì le proprie radici dà per persa la questione di una rappresentanza politica del lavoro e la sostituisce con un confuso, proteiforme opinionismo che ha per luogo di elezione la ribalta mediatica, droga dispensatrice di illusioni e di gratificazioni narcisistiche. Quando subisci la seduzione di queste sirene puoi chiamarti (oppure no) comunista, ma è certo che di quella ispirazione rimane solo una messa cantata.
Smarrita ogni capacità di lettura dei processi, si finisce per approdare ad un confuso eclettismo, dove tutto si compone e si scompone a piacere, dove ogni piano della realtà è disordinatamente sovrapposto all'altro: "modernamente" ci occupiamo di tutto, senza capire (e senza cambiare) niente. Occorre stare dentro le contraddizioni sociali, comprenderne le dinamiche, la materialità. Farlo con competenza, attraverso un sistematico lavoro di inchiesta, per immersione. E rimettere radici nel territorio, spazio pubblico di potenziale saldatura fra le lotte del lavoro e quelle per i diritti di cittadinanza, fra sindacale e sociale, fra economico e politico. O lo facciamo - e su queste rinvigorite gambe costruiamo una pratica ed una proposta - oppure saranno Berlusconi e la Confindustria a dettare le vie d'uscita dalla crisi, in alto a destra, vale a dire con più ingiustizia e con un definitivo tracollo democratico.
Inoltre, ci occuperemo dell'ecatombe ecologica generata dal modo di produzione capitalistico, per costruire una critica del modello di sviluppo: metteremo a tema "il come e il quanto produrre", quale senso restituire al lavoro sociale. Ci mobiliteremo senza soste contro la guerra, per la pace, per il disimpegno dell'Italia dalle missioni militari, per una politica di disarmo e di riconversione dell'industria bellica. Ci batteremo su altri due fronti: contro l'omofobia e il patriarcato, la forma più antica e perdurante di oppressione, quella di genere, e contro ogni discriminazione. Da quella legata alle propensioni sessuali, al verminaio razzista che ha contaminato in profondità gli strati popolari trovando a sinistra un debolissimo contrasto. Uguaglianza e libertà, indissolubilmente legate, formeranno l'ispirazione della nostra ricerca e del nostro lavoro.
E' questo un programma politico? Si, è un programma politico. E' compito di un giornale farsene carico? Di questo giornale lo è. Si esaurisce qui ogni campo di ingaggio, proposta, impegno culturale? No. Questo non è tutto, ma ne è il centro. Oggi Liberazione vende circa 6.000 copie al giorno. Proprio poche. Non è certo solo per responsabilità proprie, ma è chiaro che - a dispetto dell'impegno di chi lo produce - l'impatto del giornale sulla società è del tutto modesto. Ed è piuttosto difficile sostenere che alla residualità del gradimento sociale corrisponda un grande lievito culturale e politico. Capita talvolta che quando il divario fra le ambizioni e la realtà è grande si provi a colmarlo con un diluvio di parole. Ma è un'operazione consolatoria e lascia il tempo che trova.
Dobbiamo uscire dalla nicchia in cui ristagnamo e fare un giornale che entri in risonanza con la nostra gente, un giornale di cui i lavoratori, le lavoratrici, gli sfruttati, i poveri, le persone umiliate dalla discriminazione e dalla sopraffazione avvertano l'utilità e in cui possano trovare una sponda sicura per uscire dalla solitudine e per organizzare il proprio riscatto.

giovedì 15 gennaio 2009

Riflessioni di Rifondazione sul Bilancio di Previsione 2009

Una serata dedicata all'approvazione del bilancio di previsione 2009 Mercoledì 14 Gennaio; un bilancio che rifondazione Comunista non ha potuto promuovere sulla scia delle scarse risorse destinate alle situazioni delle nuove povertà e di precarietà che sono già purtroppo presenti sul nostro territorio, ma che, soprattutto, si prevede aumenteranno a seguito dell'onda d'urto della crisi economica.
La cronaca della serata ha visto anche il sindaco Gilioli replicare alle osservazioni delle opposizioni chiedendo, testuali parole, "ditemelo voi dove recuperiamo le risorse!".
Ebbene, ecco due altri buoni motivi per bocciare il bilancio che qualcuno, intervenendo in consiglio, ha acutamente definito "il bilancio del sindaco", rimarcandone il carattere autarchico: il primo riguarda proprio il recupero delle risorse nonostante il rispetto del patto di stabilità, ovvero il mantenimento di un impegno assunto dalla Giunta in occasione dell'approvazione del bilancio di previsione 2008, che prevedeva l'affidamento ad una ESCo (Energy Service Company) un serio progetto di risparmio energetico sugli edifici pubblici. Impegno che Rifondazione Comunista aveva presentato addirittura l'anno scorso, che era stato votato all'unanimità, ma poi evidentemente mai rispettato. Allora ci chiediamo perché le proposte costruttive di concreto risparmio come offre una ESCo, il progetto, in effetti, è a "costo zero", non vengono presi seriamente in considerazione proprio di questi tempi di dura crisi e di notevoli ristrettezze per i comuni. Rifondazione aveva risposto alla domanda del sindaco già l'anno scorso ma, appunto, la caratteristica di questo bilancio è l'autonomia.
Il secondo motivo è conseguente: che fiducia si merita una Giunta che, pur avendo assunto un impegno, poi non lo rispetta? Rifondazione Comunista ha sempre attuato un'opposizione costruttiva e propositiva, come ebbe a riconoscere lo stesso sindaco ma giunti all'ultimo bilancio di questa amministrazione, non era proprio possibile dare fiducia a questa Giunta in scadenza.

martedì 13 gennaio 2009

I palestinesi, un nemico anche da morti

Dal mare non più i suoi generosi frutti, nulla dell'amore per i suoi flutti che rispecchiano il cielo, solo la morte portata in dote da navi da guerra che arano il suo spettro liquido. Del mare proviamo a fare ancora corridoio salvifico, una breccia su questa terra martoriata, confiscata e imprigionata, stuprata in ogni suo palmo, ridotta ad un cimitero per salme che non trovano riposo. Da qualche giorno anche i funerali sono diventati target di attacchi dell'aereonautica israliana, come se i palestinesi uccisi meritassero un'ulteriore punizione anche da morti.
Se un corridoio umanitario stenta a schiudersi per venire in soccorso a una popolazione ridotta allo stremo delle forze, ci penserà la Spirit of humanity, una delle nostre barche targata Free Gaza Movement. Salpata ieri da Larnaca, Cipro, cercherà di condurre sino al porto di Gaza oltre a tonnellate di medicinali una quarantina fra dottori, infermieri, giornalisti, parlamentari europei, attivisti per i diritti umani, rappresentanti di 17 diverse nazioni.
Esseri veramente umani, come me, come i tanti in Italia che mi testimoniano la loro indignazione, disposti a rischiare la vita piuttosto che continuare a restare seduti e ignavi nel salotto buono di casa, dinnanzi ad un televisore che rimanda solo una minima parte del massacro che ci sta affliggendo.
Il 27 dicembre i miei amici ci provarono con la Dignity, furono attaccati dalla marina israeliana che tentò di affondarli, lanciato l'Sos dovettero rifugiare in Libano coi motori in avaria e una falla nello scafo. Per puro caso non ci furono feriti gravi in quell'occasione, ci auguriamo che oggi siano rispettate le loro vite e i diritti umani. Ci sono terribili catastrofi naturali a questo mondo, come terremoti e uragani, inevitabili. A Gaza è in corso una catastrofe umanitaria innaturale perpetrata da Israele ai danni di un popolo che vorrebbe ridotto alla più completa miseria, sottomissione.
Una popolazione disperata che non trova più il pane e il latte per nutrire i suoi figli. Che non piange neanche più i suoi lutti perché anche agli occhi è stata imposta una ferrea dieta. Il mondo intero non può ignorare questa tragedia, e se lo fa, non includeteci in questo mondo. Ogni giorno invochiamo forze che governano sopra di noi affinché fermino questo genocidio in corso, per questa mattina chiediamo solo che la nostra piccola imbarcazione approdi a Gaza con il suo carico di compassione, pace, amore, empatia, che a tutti i palestinesi siano concessi gli stessi diritti di cui godono gli israeliani, e qualsiasi altro popolo del pianeta. Il mare come ancora di speranza, il mare come meta di distruzione.
Secondo l'agenzia di stampa Ma'an, e la Reuters conferma, gli Stati Uniti stanno per rifornire di 300 tonnellate di armi Israele, tramite due navi cargo in partenza dalla Grecia. Armi e una grande quantità di esplosivo e detonatori, tutto il necessario per spianare la Striscia da migliaia delle sue abitazioni.
Sono già 120 mila gli sfollati da Gaza a Jabalia, ma i più, compresi diversi miei amici non si sono mossi, non sanno dove rifugiarsi. Giornalisti, dottori e becchini. Sono le professioni che lavorano di più qui a Gaza, senza sosta ormai da 16 giorni. Gli avvoltoi, oltre i caccia bombardieri, preoccupano e fomentano disprezzo, specie quelli che fino a ieri sedevano sulla stessa sedia del compianto Arafat, e ora anelano a venire a riprendersi il trono sulle ceneri di quel che di Gaza sarà.
Siamo giunti a 923 vittime, 4150 i feriti, 255 i bambini palestinesi orribilmente trucidati. Il computo delle vittime civile israeliane, fortunatamente, è fermo a quota 4. Gira voce che Olmert avrebbe fatto sapere ai suoi che il raggiungimento di 1000 vittime civili è il termine ultimo per arrestare questa brutale offensiva infanticida. Un po' come succede alla Vucciria di Palermo, dove i quarti di manzo goccialano sangue all'aperto, e si contratta la carne un tanto al chilo.
Le apparizioni di Ismail Haniyeh sullo schermo sono seguitissime dai palestinesi della Striscia. Non si può parlare di tregua senza contemporaneamente prefissare una fine dell'assedio. Continuare ad assediare una Gaza ridotta in macerie, non permettere il confluire di viveri e medicinali, impedire la fuoriuscita di malati e di feriti, significa condannarla a una più lunga agonia. Questo il sunto delle parole del leader di Hamas, pronunciate stasera da un bunker chissa dove sottoterra, che fanno breccia nell'opinione pubblica gazawi. Il discorso di un leader che avrebbe potuto fuggire a ripararsi altrove, e invece è rimasto qui a prendersi le bombe in testa come chiunque altro.
Questo mie prose odierne sono state troncate sul nascere dalla solita telefonata intimidatoria che ordina l'evocuazione prima di un bombardamento. Mi trovo nel palazzo dove risiedono i principali media internazionali, fra gli altri, Al Jazeera, Ramattan e Reuters. Abbiamo dovuto staccare i pc dalle pareti, precipitarci giù per le scale e riversarci in strada, dove con gli occhi incollati al cielo cerchiamo di scorgere da dove giungerà il fulmine distruttivo. Questa notte non ci saranno telecamere e reporter a documentare il massacro di civili, aleggia il fondato sospetto che le vittime innocenti saranno più del solito. Ancora per strada fisso Alberto e gli strizzo un occhio, si avvicina e gli sussurrò in un orecchio se ritiene plausibile che la telefonata intimidatoria sia stato un segnale per noi due soli, dopo la scoperta di un sito statunitense che ci ha messo una taglia sulla testa: «Allertare i militari dell'Idf per colpire l'Ism. Numero da chiamare se localizzate i covi di Hamas con i membri dell'Ism. Dall'America chiamate 011-972-2-5839749. Da altri paesi non digitare lo 011. Aiutateci a neutralizzare l'Ism, che è ormai parte integrante di Hamas sin dall'inizio della guerra. Bersaglio Ism n°1 per le forze aeree israeliane e truppe di terra dell'idf: invito all'omicidio di Vittorio Arrigoni (foto sotto, ndr) che attualmente assiste Hamas a Gaza». Dal sito www.stoptheism.com.
Non prendetevi la briga di visitarlo né tantomeno di linkarlo ai vostri siti. È una testimonianza sociologica da tramandare ai posteri. Analizzando questi tempi, il futuro pronuncerà la sua sentenza inappellabile, di come l'odio fosse il sentimento più puro, e il livore verso il diverso muovesse eserciti e fosse il collante di intere masse di uomini,
Non è necessario che i miei detrattori e chi mi vorrebbe martire compongano quel numero, l'esercito israeliano sa benissimo dove trovarmi anche stanotte: sto sopra le ambulanze dell'ospedale Al Quds in Gaza city. Restiamo umani.

lunedì 12 gennaio 2009

Direzione Nazionale PRC 12 Gennaio 2009 - Relazione introduttiva di Paolo Ferrero

Nella direzione di oggi vi proponiamo di sostituire il direttore di Liberazione Piero Sansonetti con Dino Greco, dopo aver sentito la redazione nella giornata di giovedì. Il motivo di questa proposta, che speravo di non dovervi fare, è duplice e gravissimo.

In primo luogo ci troviamo di fronte ad una situazione del giornale, catastrofica dal punto di vista economico e delle vendite. Nel corso del 2008 il giornale perderà circa 3 milioni e mezzo di euro a fronte della previsione fatta nel bilancio preventivo di 900mila euro.

Questa crescita esponenziale del deficit, si accompagna ad un progressiva perdita di copie vendute che richiede un intervento immediato. Dalle 9.945 copie mediamente vendute nel 2004 siamo passati alle 6.834 nel 2008, con un calo ancora più pronunciato negli ultimi mesi, tanto da finire sotto le 6.000 copie giornaliere negli ultimi mesi dell’anno.

In secondo luogo Piero Sansonetti ha indirizzato chiaramente Liberazione sul progetto politico di superare rifondazione comunista, proponendo nel contempo la costruzione di una altra forza politica. In questi mesi, mentre i compagni e le compagne di rifondazione avevano democraticamente deciso di rilanciare rifondazione comunista, abbiamo avuto un giornale che ha proceduto nella direzione opposta.

Il combinato disposto di questi due elementi produce una situazione francamente inaccettabile, in cui Rifondazione spende una barca di quattrini (nel 2008 un terzo del bilancio) per finanziare un giornale che propone quotidianamente il superamento del partito medesimo e del suo progetto politico. Una situazione inaccettabile che ha portato ad uno scollamento tra il giornale e la nostra gente in cui la perdita di copie vendute è l’espressione diretta del fallimento del progetto editoriale che Piero ha portato avanti. Arriviamo ora a questa discussione perché, in tutti questi mesi, ho chiesto a Piero di modificare l’indirizzo del giornale, in modo da renderlo un giornale in grado di recuperare una sintonia con i suoi lettori e quindi copie vendute. Questo non è avvenuto, anzi è accaduto il contrario e credo sia necessario prenderne atto perché se continuiamo su questa strada sarà Rifondazione ad essere distrutta. In primo luogo perché, data la sostanziale censura che subiamo da parte dei grandi mezzi di comunicazione, Liberazione è essenziale per il rilancio di Rifondazione Comunista.

In secondo luogo perché, essendo Liberazione il quotidiano di Rifondazione, al partito vengono imputate le prese di posizione politiche del giornale. Siamo così in una situazione surreale in cui le prese di posizioni politiche di Liberazione - o proposte del tutto estemporanee come ad esempio la scarcerazione di Anna Maria Franzoni - vengono imputate al partito. Oltre al danno la beffa. In terzo luogo perché se continuassimo così sarebbe il partito a finire in bancarotta. Deve essere infatti chiaro a tutti che il finanziamento pubblico ci permette per il 2009 e il 2010 di avere una decina di milioni di euro a diposizione ma che dopo questo calerà drasticamente. Non possiamo permetterci - pena la chiusura del partito - di continuare su questa strada suicida. Questi e non altri sono i motivi del cambio di direzione, al di là delle falsità che sono state diffuse a piene mani in questi giorni.

Il problema non è la libertà e l’autonomia dei giornalisti o del giornale, ma il suo progetto politico. Liberazione , prima di questa direzione, ha interpretato creativamente il progetto della rifondazione comunista, con le inevitabili dialettiche e conflitti con il gruppo dirigente del partito. Non è questo il problema; il giornale per essere utile deve agire in autonomia la propria partecipazione ad un comune progetto politico di cui la segreteria non è il depositario unico ed autentico. Tra segreteria e giornale non vi deve essere un rapporto gerarchico, ma il libero e creativo sviluppo di un comune progetto politico.

Il problema non è l’abbandono dei temi dei diritti civili e della libertà di orientamento sessuale. Abbiamo messo nel nostro statuto che Rifondazione Comunista si batte per il superamento del capitalismo e del patriarcato. Abbiamo voluto compiere questo atto di definizione della nostra identità proprio perché pensiamo che il cammino della rifondazione comunista ci chiede di coniugare la contraddizione capitale lavoro con le altre contraddizioni che si presentano e che non sono in essa racchiuse. Per noi il tema della libertà e il tema dell’eguaglianza sono indissolubilmente legati perché sappiamo bene che l’una senza l’altra sono parole vuote. Personalmente ho fatto l’obiettore di coscienza nel lontano 1980, ben prima che Rifondazione scoprisse la nonviolenza e sempre in quell’anno ho contribuito ad organizzarei lavori del primo seminario su "Fede cristiana e omosessualità" in cui con il compianto Ferruccio Castellano, con Franco Barbero e altri si cominciava a decostruire la teologia reazionaria a base naturalista con cui il Vaticano condannava l’omosessualità come "malattia".

Per quanto mi riguarda l’idea che si possano contrapporre diritti civili e diritti sociali, operai e omosessuali, giustizia e libertà di orientamento sessuale, lotte per l’eguaglianza e lotte per la libertà è semplicemente una follia. Così come la lezione delle donne sulla differenza e sulla necessità di coniugare differenza ed eguaglianza nella comune lotta alle diseguaglianze è un patrimonio comune, coincide con la nostra maturazione di partito e di individui.

Rilanciare Rifondazione Comunista

Il progetto politico su cui ci siamo impegnati a partire dal Congresso è quello del rilancio del progetto della rifondazione Comunista, non altro. Rilancio del progetto della Rifondazione Comunista vuol dire che i due termini si sostengono e si valorizzano a vicenda. La Rifondazione senza comunismo diventa pura innovazione senza principi, una sorta di occhettismo di ritorno. Il Comunismo senza la rifondazione è un concetto muto perché non fa i conti con gli errori e gli orrori del socialismo reale che dobbiamo riconoscere per essere in grado di non ripeterli, per rendere nuovamente credibile la parola comunismo. Per questo mi pare incredibile la polemica sul muro di Berlino. A me pare evidente che la caduta del muro di Berlino sia un fatto positivo e necessario. Positivo e necessario perché attraverso i muri certo non si costruisce il socialismo e perché quel modello sociale era diventato insopportabile per chi ci viveva. Farne discendere che la caduta del muro di Berlino sia il simbolo della ripartenza della trasformazione sociale mi pare una sciocchezza.

Per questo è bene che il muro sia stato distrutto ma è del tutto evidente che la sua caduta non ha aperto - come pensava Occhetto - la strada della libertà e della giustizia, di un mondo migliore. Siamo rimasti - est e ovest, tutti insieme - nello schifo del neoliberismo capitalistico e adesso ne paghiamo i prezzi - tutti insieme - della sua crisi. Recuperare un concetto dialettico di storia, in cui un fatto più essere - dialetticamente - positivo e necessario ma non per questo il simbolo della ripartenza della trasformazione sociale, mi pare un punto decisivo per la prospettiva della rifondazione comunista ma anche - banalmente - della civiltà del nostro dibattito. Un punto di cultura politica che mi ha particolarmente colpito in queste settimane è proprio l’utilizzo della storia di Rifondazione come una clava, per cui ci sarebbero gli eredi di rifondazione e i barbari che hanno avvelenato i pozzi. A me pare che la storia di rifondazione sia una storia contraddittoria e non si possa ridurre a questa caricatura. In particolare non capisco perché la rottura con il primo governo Prodi , che ha portato alla scissione di Cossutta, sia stata in questi anni considerata un atto rifondativo, un atto fondante per rifondazione e adesso, il cambio di linea democraticamente deciso al Congresso, sarebbe un golpe.

Il punto vero è che dentro Rifondazione vi è sempre stata una dialettica tra la "blindatura" dei gruppi dirigenti e democrazia di base. E’ stato così sin dall’inizio. Quando Sergio Garavini venne cacciato da segretario vi fu una polemica feroce tra chi sosteneva l’intangibilità del patto tra i "soci fondatori" e chi sosteneva il diritto a far valere le regole democratiche nel partito. Quando vi fu la rottura con il governo Prodi - ed erano gli anni della diarchia tra Bertinotti e Cossutta - Cossutta sostenne che non si poteva rompere quel patto e ci accusò pesantemente di voler distruggere il partito perché rompevamo l’accordo di vertice e ottenevamo la maggioranza in Cpn ricorrendo ai voti dei compagni della minoranza guidata da Livio Maitan. Adesso, contro la segreteria viene fatta la stessa polemica che Cossutta fece contro Bertinotti. Sono sbigottito. Pensavo infatti che per tutta Rifondazione comunista il terreno della democrazia - una testa un voto - fosse oramai un terreno acquisito, pacifico. Prendo atto invece che è proprio dalla non accettazione delle basilari regole democratiche che nasce la crisi post congressuale.

Al contrario io penso che dobbiamo oggi ribadire che il pieno esercizio della democrazia, unito alla scelta strategica della gestione unitaria del partito, è il terreno su cui si può sviluppare la rifondazione comunista, la nostra scelta di essere liberamente comunisti.

A questo riguardo voglio anche sottolineare che la nostra scelta di rilancio della rifondazione comunista si è contrapposta in congresso alla scelta della costituente della sinistra come alla scelta della costituente comunista. Noi vogliamo rilanciare il processo della rifondazione comunista perché siamo convinti che solo attorno a questo processo si possa costruire l’unità della sinistra e una efficace politica di trasformazione sociale. La radicalizzazione da parte di alcuni compagni e compagne della scelta della costituente di sinistra non ci farà quindi cambiare linea, non ci faremo ingabbiare nella prospettiva della costituente comunista; riproponiamo la pratica e la prospettiva della rifondazione comunista. Nessuno si faccia illusioni: non faremo vincere politicamente il congresso a chi lo ha perso con il voto democratico dei compagni e delle compagne. Non regaleremo a chi vuole fare un altro partito di sinistra uno spazio politico che non esiste e che si vuole costruire distruggendo l’immagine, la realtà e il progetto di Rifondazione. Per questo sono rimasto ferito di fronte ad una campagna stampa di cui Liberazione e alcuni dirigenti della minoranza sono stati protagonisti e che hanno dipinto la sostituzione di Sansonetti come un atto omofobico e stalinista. Non è così e lo dimostreremo.

La nostra proposta

Lo dimostra in primo luogo il direttore che vi proponiamo. Dino Greco è un dirigente sindacale, della sinistra Cgil. Negli anni in cui è stato segretario della Camera del lavoro di Brescia, la più grande Camera del Lavoro d’Italia, non si è limitato ad organizzare la difesa degli interessi materiali di quei lavoratori e lavoratrici. La CdL di Brescia è stata per anni all’avanguardia nell’organizzazione dei migranti, con un ruolo locale e nazionale insostituibile. Proprio da uno sciopero della fame organizzato a Brescia è nata una grande campagna nazionale sui diritti dei migranti. Non solo. La CdL, negli anni in cui è stata diretta da Dino Greco, ha regolarmente partecipato alle manifestazioni pacifiste che richiedevano a Brescia e in Italia la riconversione dell’industria bellica. Non era così facile, a Brescia, dove vi sono lavoratori iscritti contemporaneamente alla Fiom e alla Lega Nord, schierare la Camera del lavoro sul versante degli immigrati e della riconversione dell’industria bellica, ma questo è stato fatto. E voi pensate che adesso Dino Greco sia diventato un’altra persona, che prenderà ordini per telefono dal "segretario padrone"? Dino Greco io penso e spero sarà in grado di fare un giornale aperto e autonomo, punto fondamentale del rilancio del progetto della rifondazione comunista proprio perché interpretato con autonomia e creatività.

Spero in particolare che il giornale saprà interpretare creativamente la nuova fase sociale e politica in cui siamo: la crisi economica, che per dimensioni, intensità e profondità è una vera e propria crisi costituente, che non lascerà nulla come prima, intrecciata con la crisi della politica, con la completa delegittimazione della politica come terreno di realizzazione del bene comune.

Proprio la necessità di avanzare una proposta all’altezza della sfida della crisi ci impedisce qualsiasi semplificazione che separi le questioni della libertà da quelle sociali. Non a caso le destre utilizzano ideologie reazionarie come elementi fondanti la loro proposta politica. Di fronte alla crisi la Lega propone di mandare via gli immigrati, costruendo così una illusoria soluzione costruita sulla guerra tra i poveri. Così come nella crisi di ideali e prospettive il Vaticano ripropone di tornare a valori premoderni e reazionari come il patriarcato. Proprio la crisi ci obbliga ad un inedito intreccio tra difesa degli interessi immediati degli strati più deboli della società a partire dai lavoratori con i valori di libertà, con la costruzione di un universo simbolico alternativo al nichilismo premoderno egemone; quell’universo simbolico che noi chiamiamo comunismo e che vogliamo rifondare.

venerdì 9 gennaio 2009

Basta con la strage di civili a Gaza. Assurdo continuare l'aggressione. Israele si fermi, Nazioni Unite adottino anche sanzioni.


di Paolo Ferrero - Segretario Nazionale Rifondazione Comunista

Proprio nel giorno in cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha trovato un accordo su una risoluzione per chiedere il cessate il fuoco in Palestina, sempre le Nazioni unite hanno denuciato l'ennesima strage di civili compiuta a Gaza da parte dell'esercito israeliano, dove in più di cento civili, ammassati in una casa, sono stati bombardati e uccisi.
L'invasione e la guerra lanciata da Israele a Gaza deve fermarsi e subito. Stiamo assistendo a dei veri e propri crimini di guerra e la situazione umanitaria è ormai al collasso. Di fronte alla decisione di Israele di continuare la guerra , nonostante le centinaia di vittime innocenti, la comunità internazionale deve prevedere anche sanzioni per rendere cogenti le sue richieste. Altrimenti, il rischio è che tutto rimaga sulla carta, come accaduto fino ad oggi.

giovedì 8 gennaio 2009

Come potete tacere? Che aspettate?

di Pietro Ingrao

Sento il bisogno di unire la mia debole voce a quella di coloro che in Italia e altrove hanno espresso in queste ore la loro condanna della guerra d'aggressione condotta da Israele nella tormentata striscia di Gaza.
Sono convinto che non è con quella violenza iniqua che Israele può tutelare il suo domani. Anzi credo, temo che con questa aggressione infausta essa seminerà nuovo alimento per gli estremisti disperati di Hamas.

E infine io sono allarmato per questo ritorno dell'urto armato di massa nei rapporti tra popoli e nazioni. E ritengo improvvida e cieca l'inerzia con cui tanti, troppi, oggi assistono a questo ritorno delle fiamme crudeli della guerra che già hanno marcato il mio tempo.
Se vado a rileggere le pagine di un testo essenziale nella nostra vita democratica - alludo alla Costituzione - ricordo che quel testo ha parole che condannano la guerra d'aggressione. Perché oggi quel ripudio è dimenticato? E tremo dinanzi al riemergere delle morti infinite, delle città arse, dei massacri di massa.
E tutto ciò lo vedo come un domani terribile anche per Israele, per la sua storia di esilii di lacrime, di esclusioni.
Per tutto questo non capisco l'inerzia di chi oggi ci comanda anche in questa Europa, e in questa mia terra già così amaramente segnata da stragi; e illusa tragicamente - tante, troppe volte - dalla potenza delle armi. E amaramente anelo a un'altra strada. E chiedo ansiosamente a chi governa la mia terra, la mia patria: come potete tacere? che aspettate?

mercoledì 7 gennaio 2009

Gaza: è necessaria una mobilitazione ampia e unitaria del movimento pacifista

di Paolo Ferrero e Fabio Amato

Gaza: è necessaria una mobilitazione ampia e unitaria del movimento pacifista. Israele fermi subito questo assurdo massacro. un terzo dei morti in raid sono bambini e adolescenti.
La guerra che sta imperversando a Gaza, con il suo carico di dolore e di morti innocenti, deve essere fermata al più presto.
Circa un terzo dei 689 palestinesi uccisi nei 12 giorni di offensiva israeliana a Gaza sono bambini e adolescenti di meno di 16 anni di età. E' necessario, nei prossimi giorni, arrivare a mobilitazioni il più ampie ed unitarie possibili, di sostegno al popolo palestinese, al suo bisogno di unità di fronte alla drammatica escalation in corso. La richiesta di unità è anche uno dei punti della piattaforma delle forze della sinistra palestinese, che ho avuto modo di incontrare nel nostro recente viaggio nei territori occupati.
Il movimento italiano, le forze democratiche e che si battono per una pace giusta, devono raccogliere questo appello, e saper costruire occasioni di mobilitazione in cui tutti coloro i quali condividono l'obiettivo di fermare l'aggressione israeliana a Gaza possano partecipare.

Sarebbe un errore gravissimo se le differenze politiche che attraversano il movimento in Italia impedissero la costruzione di un appuntamento unitario per tutti coloro che vogliono chiedere semplicemente ma nettamente che Israele fermi l'aggressione, la smetta con questo massacro. Non è pensabile che di fronte alla drammaticità della situazione a Gaza si facciano prevalere le ragioni della divisione su quelle – urgenti – della mobilitazione unitaria.

Il nostro Partito è impegnato in tutto il paese a costruire iniziative che vadano in questa direzione, e lavorerà per un appuntamento nazionale che unisca e non divida e invita tutti a muoversi in questa direzione.

La bandiera israeliana bruciata non è il fatto più rilevante

di Wainer Burani - avvocato e membro del Direttivo di Circolo

Non credo che il fatto più rilevante della manifestazione di sabato 3 gennaio sia stato quello relativo alla bandiera israeliana bruciata. Credo sia stata molto più rilevante la presenza, in piazza, di migliaia di persone che manifestavano, in quel momento, contro il crimine contro l'umanità, che si stava e si sta consumando nell'indifferenza degli organismi internazionali preposti alla difesa della pacifica convivenza fra i popoli, nella martoriata Striscia di Gaza, un lembo di Palestina da anni sottoposta ad un blocco criminale che impedisce alla gente di avere cibo a sufficienza, ai bambini e ai vecchi di disporre di generi vitali, ai malati di curarsi.
I politici locali, almeno quelli intervistati, invece, evidentemente, considerano più grave il bruciare una bandiera che non bombardare un territorio fra i più densamente popolati del mondo, uccidendo, fino ad ora, quasi cinquecento persone e mutilandone per sempre alcune migliaia: si stracciano le vesti per un pezzo di stoffa inopportunamente dato alle fiamme, ma considerano, al più, una «reazione sproporzionata», bombardare uno dei territori più densamente popolati del mondo con la conseguente uccisione di almeno 500 persone fra le quali 87 bambini. L'assessore alla Solidarietà, Marcello Stecco, dopo aver manifestato «i l più profondo dolore per quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza», chiama alla «onestà intellettuale» invitando a «non sottacere la grave responsabilità di Hamas nel contribuire alla drammatizzazione militare, politica e umanitaria in atto». Venendo, però, clamorosamente meno alla sua stessa premessa, parla di «rottura della tregua» da parte di Hamas quando è noto che la tregua l'ha rotta Israele uccidendo, poche settimane prima della sua scadenza, un militante di Hamas in una «eliminazione mirata» (da noi si chiamerebbe assassinio politico) e, ancora, che Hamas, quella tregua l'ha rispettata fino all'ultimo giorno e che lo Stato di Israele non ha attuato la condizione per prorogarla, perché si è guardato bene dal togliere il blocco alla Striscia di Gaza, azione, peraltro, espressamente vietata dal Diritto Internazionale, sia Umanitario che di guerra e in particolare dalle Convenzioni di Ginevra. Non è dimenticanza da poco, per un politico «di lungo corso». Ma v'è di più: Marcello Stecco dà per scontato che vi sia una sola soluzione possibile alla questione palestinese; dimentica, però, che una delle prime risoluzioni delle Nazioni Unite ed oggi autorevoli commentatori, di diverse ideologie ed estrazione politica, fra loro anche pacifisti di religione ebraica (ovviamente non i sionisti), prospettano un'altra e diversa soluzione: quello di uno stato laico e democratico dove popoli diversi possano convivere e praticare liberamente, come fatto privato, anche se collettivo, la loro religione. Fa specie pensare ad una «coscienza democratica» che ritiene coerente l'idea di uno stato confessionale in cui ha diritto di cittadinanza soltanto chi, nato in qualsiasi parte de l mondo, professa una certa religione e non chi vi è nato e vi vive. Valda Busani, evidentemente, ha letto comunicati diversi da quelli fatti dai promotori della manifestazione. Non so da chi ritenga di essere stata isolata; certamente, parte dei promotori dell'iniziativa non hanno nulla a che fare con la religione ed erano all'interno del corteo senza, per questo, sentirsi stranieri. Marco Eboli: vedo che non ha perso la propensione ad invocare il divieto di manifestare; è ancora poco, ma, se potesse, farebbe sicuramente di più e di meglio, coerentemente con la sua ideologia (a proposito, ma le leggi razziali le ha fatte qualcuno di cui, probabilmente, ha il ritratto in casa, o no?). Gabriele Fossa: forse se non si lanciasse in analisi troppo complicate, sarebbe meglio per tutti, visto il risultato del suo argomentare. Il richiamo alla «identità religiosa» e ai «no - stri valori» sono davvero emblematici, soprattutto del suo effettivo rispetto della nostra Costituzione, che ha voluto uno stato laico e democratico. Forse preferisce il confessionalismo ed è per questo che gli piace l'idea dello «stato degli ebrei», qual è Israele (a proposito dei valori delle democrazie occidentali). Laddove, poi si esibisce nell'analisi della «mentalità islamica», raggiunge vertici elevatissimi. Ovviamente, nessuno gli ha mai detto che, non da oggi, autorevoli commentatori hanno prospettato anche la diversa soluzione di uno stato laico e democratico per tutti i popoli ch e vivono in quella terra e ch e l'ipotesi fu cancellata dall'azione militare, dalla «pulizia etnica» effettuata dalle bande militari sioniste che bruciarono quasi quattro villaggi massacrandone parte della popolazione e deportando i sopravvissuti e dalla proclamazione unilaterale dello Stato di Israele, stato che, unico al mondo, non ha confini ufficiali. A Fossa hanno nascosto anche tante altre cose, ad esempio, la tolleranza religiosa dell'Islam in Spagna (sì, quella stessa dell'Inquisizione), che smentisce i suoi timori. Claudio Guidetti: è preoccupato per «Reggio d'Arabia» e per la mancata condanna dei missili di Hamas. Probabilmente non si è nemmeno mai nemmeno posto il problema di capire come possa vivere un popolo sotto embargo da anni (non impedisce l'arrivo di armi, ma di cibo e medicinali), cacciato dalla terra dove h a vissuto da millenni, costretto all'esilio in campi profughi o a vivere come straniero dov'è nato. Ma, evidentemente, non è problema suo.

lunedì 5 gennaio 2009

Gaza, lettera aperta ai politici italiani

di Luisa Morgantini - Vice Presidente del Parlamento Europeo

Non una parola, non un pensiero, non un segno di dolore per le centinaia di persone uccise, donne, bambini, anziani e militanti di Hamas, anche loro persone. Case sventrate, palazzi interi, ministeri, scuole, farmacie, posti di polizia. Ma dove è finita la nostra umanità. Dove sono i Veltroni, con i loro “I care”, come si può tacere o difendere la politica di aggressione israeliana?

La popolazione di Gaza e della Cisgiordania, i palestinesi tutti, pagano il prezzo dell’incapacità della Comunità Internazionale di far rispettare ad Israele la legalità internazionale e di cessare la sua politicale coloniale.

Certo Hamas con il lancio dei razzi impaurisce ed è una minaccia contro la popolazione civile israeliana, azioni illegali, da condannare. Bisogna fermarli.

Ma basta con l’ impunità di Israele e dei ricatti dei loro gruppi dirigenti.

Dal 1967 Israele occupa militarmente i territori palestinesi, una occupazione brutale e coloniale. Furto di terra, demolizione di case, check point dove i palestinesi vengono trattati con disprezzo, picchiati, umiliati, colonie che crescono a dismisura portando via terra, acqua, distruggendo coltivazioni. Migliaia di prigionieri politici, ai quali sono impedite anche le visite dei familiari.

Ma voi dirigenti politici, avete mai visto la disperazione di un contadino palestinese che si abbraccia al suo albero di olivo mentre un buldozzer glielo porta via e dei soldati che lo pestano con il fucile per farglielo lasciare, o una donna che partorisce dietro un masso e il marito taglia il cordone ombelicale con un sasso perché soldati israeliani al check point non gli permettono di passare per andare all’ ospedale, o Um Kamel, cacciata dalla sua casa, acquistata con sacrifici perché fanatici ebrei non sopravissuti all’olocausto ma arrivati da Brooklin, pensando che quella terra e quindi quella casa sia loro per diritto divino, sono entrati di forza e l’hanno occupata perché vogliono costruire in quel quartiere arabo di Gerusalemme un’altra colonia ebraica. Avete mai visto i bambini dei villaggi circostanti Tuwani a sud di Hebron che per andare a scuola devono camminare più di un ora e mezza perché nella strada diretta dal loro villaggio alla scuola si trova un insediamento e i coloni picchiano ed aggrediscono i bambini, oppure i pastori di Tuwani che trovano le loro tanche d’acqua o le loro pecore avvelenate da fanatici coloni, o la città di Hebron ridotta a fantasma perché nel centro storico difesi da più di mille soldati 400 coloni hanno cacciato migliaia di palestinesi, costringendo a chiudere più di 870 negozi.

Avete visto il muro che taglia strade e quartieri che toglie terre ai villaggi che divide palestinesi da

Palestinesi, che annette territorio fertile e acqua ad Israele, un muro considerato illegale dalla Corte Internazionale di giustizia. Avete visto al valico di Eretz i malati di cancro rimandati indietro per questioni di sicureza, negli ultimi 19 mesi sono 283 le persone morte per mancanze di cure, avrebbero dovuto essere ricoverate negli ospedali all’estero, ma non sono stati fatti passare malgrado medici israeliani del gruppo Phisician for Human rights garantissero per loro. Avete sentito il freddo che penetra nelle ossa nelle notte gelide di Gaza perché non c’è riscaldamento, non c’è luce, o i bambini nati prematuri nell’ospedale di Shifa con i loro corpicini che vogliono vivere e bastano trenta minuti senza elettricità perché muoiano.

Avete visto la paura e il terrore negli occhi dei bambini, i loro corpi spezzati. Certo anche quelli dei bambini di Sderot, la loro paura non è diversa, e anche i razzi uccidono ma almeno loro hanno dei rifugi dove andare e per fortuna non hanno mai visto palazzi sventrati o decine di cadaveri intorno a loro o aerei che li bombardano a tappeto. Basta un morto per dire no, ma anche le proporzioni contano dal 2002 ad oggi per lanci di razzi di estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone. Troppe, ma a Gaza nello stesso tempo sono stati distrutte migliaia e migliaia di case ed uccise più di tre mila persone tra loro centinaia di bambini che non tiravano razzi.

Dopo le manifestazioni di Milano dove sono state bruciate bandiere israeliane, voi dirigenti politici avete tutti manifestato indignazione, avete urlato la vostra condanna. Ne avete tutto il diritto. Io non brucio bandiere né israeliane né di altri paesi e penso che Israele abbia il diritto di esistere come uno Stato normale, uno stato per i suoi cittadini, con le frontiere del 1967, molto più ampie di quelle della partizione della Palestina decisa dalla Nazioni Unite del 1947.

Avrei però voluto sentire la vostra indignazione e la vostra umanità e sentirvi urlare il dolore per tante morti e tanta distruzione, per tanta arroganza, per tanta disumanità, per tanta violazione del diritto internazionale e umanitario. Avrei voluto sentirvi dire ai governanti israeliani: Cessate il fuoco, cessate l’assedio a Gaza, fermate la costruzione delle colonie in Cisgiordania, finitela con l’ occupazione militare, rispettate e applicate le risoluzioni delle Nazioni Unite, questo è il modo per togliere ogni spazio ai fondamentalismi e alle minaccie contro Israele.

Ieri lo dicevano migliaia di israeliani a Tel Aviv, ci rifiutamo di essere nemici, basta con l’occupazione.

Dio mio in che mondo terribile viviamo.

venerdì 2 gennaio 2009

Stop su Iride-Enia per rilanciare pubblico e partecipazione e ripartire dal territorio

di Nando Mainardi - segretario regionale Prc Emilia-Romagna

È opportuno un ripensamento sull'aggregazione Iride-Enìa anche da parte dei Comuni della nostra regione coinvolti in questo processo.
Nei giorni scorsi è emersa pubblicamente la richiesta di uno "stop" e, a quanto pare, di un rallentamento da parte dei Comuni di Genova e Torino per ragioni di carattere unicamente economico-finanziario.
Nelle attuali condizioni, in particolare dopo il calo del valore dei titoli quotati in Borsa delle multiutilities, l'operazione non sarebbe più economicamente conveniente per Iride.
Ancora una volta i temi della qualità dei servizi, del rapporto con i territori, dell'accessibilità delle tariffe, della tenuta dei livelli occupazionali sono assenti dall'agenda politico-istituzionale.
Tra l'altro nei consigli di alcuni Comuni dell'Emilia-Romagna verranno discussi nei prossimi giorni lo statuto e i patti parasociali relativi ad un'operazione - l'aggregazione Iride-Enìa appunto - di cui a questo punto non si conoscono nè il destino nè le condizioni.
È per questo opportuno e necessario un ripensamento che metta al centro il rilancio dei servizi pubblici locali e il rilancio di una prospettiva regionale.
È necessario che avvenga ciò che non è avvenuto fino ad ora: una discussione ed un confronto che coinvolga i Comuni dell'Emilia-Romagna, le forze politiche e sociali, i cittadini, i lavoratori. Le divisioni che attraversano il Partito Democratico emiliano-romagnolo su questo fronte dovrebbero far riflettere.
Anche Rifondazione Comunista chiede perciò uno stop, ma per ripartire dal rilancio del pubblico e della partecipazione.

giovedì 1 gennaio 2009

Israele sulla via del disprezzo

di Rete-ECO (Rete degli Ebrei contro l'Occupazione)

Israele ha attaccato Gaza con 100 aerei da combattimento, missili ed elicotteri Apache, uccidendo, all'ora in cui scriviamo, circa 350 persone tra cui un numero elevato di donne e bambini. Prima di questo, da oltre due anni ha strangolato gli abitanti (1 milione e mezzo circa) imponendo il blocco dei rifornimenti di cibo, carburante, energia elettrica. Ha bloccato l'entrata ed uscita degli abitanti compresi i malati gravi, ridotti alla fame e privi di possibilità di curarsi e lavorare. L'economia della Striscia è stata distrutta dal blocco completo di esportazioni ed importazioni: mancano i materiali (cemento, ecc) per costruire, per l'industria e l'agricoltura. I prodotti tradizionali del luogo, ortaggi e frutta, marciscono nei magazzini a causa del blocco israeliano. Anche i soccorsi delle Nazioni Unite e di alcuni Paesi europei sono stati gravemente ostacolati, ed impedita l'attività di associazioni di cooperazione. Gaza ha tutto l'aspetto di una prigione a cielo aperto. La precaria tregua stabilita nel 2008 è stata rotta da Israele con un attacco che ha ucciso, nel novembre scorso, 7 persone.
Alcuni palestinesi (in realtà non si sa chi siano, ma sembra giusto metterli in conto ad una parte almeno di Hamas, poiché Hamas non li ha sconfessati) hanno reagito lanciando razzi Qassam contro le abitazioni israeliane al confine con la Striscia, principalmente nella cittadina di Sderot e dintorni. Questi razzi, assolutamente inefficaci dal punto di vista militare, possono essere diretti solo con grossolana approssimazione, e sono la manifestazione di una volontà di resistenza che si esprime in modo velleitario ed assurdo, e criminale perché rivolto contro civili: essi servono soprattutto ad Israele, come pretesto per continuare il mai interrotto blocco, ed ora la strage. Abbiamo visto i ministri israeliani parlare della necessità di difendere i loro cittadini dai razzi sparati dal territorio di Gaza, con una cinica ed inverosimile ripetizione della favola del lupo e l'agnello. La ministra degli esteri è comparsa in tv per dire che ora basta: nonostante il dolore per i bambini colpiti, «è ora di far cessare la minaccia contro Israele». Questa volta, neppure la stampa dell'Europa occidentale sembra disposta a credere a queste menzogne, salvo una parte consistente di quella italiana, assuefatta alla autoprivazione della libertà di espressione per opportunismo conformista.
La politica di Israele, con la coraggiosa eccezione di una piccola minoranza a cui va reso merito, la miriade di piccoli gruppi organizzati che esercitano una attivissima opposizione in nome degli ideali di giustizia e libertà, uguaglianza e pace ( vogliamo qui ricordarli tutti con simpatia e solidarietà: ci si permetta anche di additare i giovani e giovanissimi che rifiutano il servizio militare come occupanti ed oppressori nei territori palestinesi), è tuttora dominata dall'ideale nazionalista del sionismo che vuole, dopo stabilito lo Stato Ebraico, farlo più grande e forte, invincibile rifugio degli Ebrei dispersi nel mondo. E per questo, invece di cercare amicizia e cooperazione con il popolo palestinese che hanno cacciato dalla sua terra con la violenza ed il disprezzo, in modo continuato dal 1948 ad oggi, si affida alla forza delle armi.
L'estrema violenza ed ingiustizia di tutta la politica israeliana, dalla cacciata dei palestinesi ad oggi, è ora culminata nell'eccidio di Gaza, che ricorda altri eccidi che non vogliamo qui citare uno per uno, ma che gli israeliani e gli ebrei della diaspora dovrebbero aver ben presenti, ed insegnare alle nuove generazioni perché rifiutino la violenza nazionalista e razzista.
Ricordando l'introduzione di Primo Levi al suo esemplare libro «Se questo è un uomo», affermiamo che quando il disprezzo per lo straniero, il diverso, diventa il fondamento di una società, si arriva al lager. La strage di Gaza, insieme all'oppressione dei palestinesi nella Cisgiordania, alla loro discriminazione in Israele, è già ben inoltrata su questa strada.