"Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada" Majakovskij

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giovedì 27 agosto 2009

L'autunno è già cominciato

di Paolo Ferrero, Segretario Nazionale PRC-SE

Da due giorni gli operai e le operaie della Lamse di Melfi - a cui va tutto il nostro sostegno e la nostra solidarietà - hanno occupato la fabbrica contro i 174 licenziamenti annunciati a inizio agosto. Lunedì i lavoratori e le lavoratrici hanno occupato la sede della Confindustria di Potenza e martedì, mentre stavano occupando la fabbrica, un guardione ha pensato bene di sparare vari colpi e di puntare la pistola contro gli operai. Evidentemente le politiche securitarie, che mettono al centro la proprietà dei ricchi e all'ultimo posto la sicurezza delle persone, hanno fatto scuola e si stanno estendendo dai migranti alle lotte operaie. Alla faccia del pistolero però i lavoratori hanno occupato la fabbrica e questa lotta è finalizzata all'apertura di una trattativa - con la proprietà e con la Fiat - al fine di ottenere il ritiro dei licenziamenti e un futuro occupazionale ai lavoratori. La Lamse infatti è una azienda dell'indotto della Fiat e quest'ultima non può sottrarsi alle sue responsabilità. In questi anni i padroni hanno spezzettato il ciclo produttivo per dividere i lavoratori e aumentare i profitti. Adesso non possono pensare che ci facciamo sfogliare come una margherita: per ogni azienda dell'indotto deve essere chiamata in causa l'azienda capofila che si deve far carico dei problemi occupazionali.
Da settimane abbiamo detto che l'autunno sarebbe stato caldo, banco di prova decisivo per costruire un efficace conflitto sociale contro la crisi capitalistica. Abbiamo detto che bisognava fare come la Innse, che bisognava imparare dai francesi, per costruire il conflitto e renderlo visibile. Adesso ci siamo. E' decisivo che le lotte che partono non vengano lasciate sole, che si costruisca il massimo di visibilità della lotta, di solidarietà attorno ad essa al fine di ottenere una trattativa vera e quindi di determinare una modifica radicale della volontà padronale. In questi giorni il partito lucano ha dato un contributo decisivo alla lotta dei lavoratori della Lamse, ma adesso occorre costruire la mobilitazione del partito - e dei suoi rappresentanti istituzionali - non solo in Basilicata ma anche nelle regioni limitrofe. Occorre partecipare al presidio, occorre inondare di foto e di racconti le redazioni di giornali e televisioni, occorre rompere l'isolamento. Venerdì ci sarà la prima vera trattativa ed è decisivo arrivarci con il movimento ben rafforzato.
Non si scambi questa proposta per una riduzione della politica alla lotta sindacale. La costruzione di una efficace risposta di lotta, fabbrica per fabbrica, è un passaggio decisivo al fine di costruire i Comitati contro la crisi e quindi un movimento politico di massa per l'uscita dalla crisi da sinistra. Il blocco dei licenziamenti, l'estensione della cassa integrazione a tutti i lavoratori e le lavoratrici che perdono il posto di lavoro, la creazione di un salario sociale per i disoccupati, la richiesta di un aumento salariale e pensionistico generalizzato, la lotta alla precarietà, sono i punti principali della costruzione di un movimento di massa che coinvolga lavoratori occupati, cassaintegrati, licenziati, disoccupati. La costruzione di un movimento di massa è l'obiettivo, il suo punto di partenza sono le singole lotte - dalla Lasme ai precari che a Matera hanno occupato il provveditorato - che in questa situazione non hanno un valore aziendale ma generale. Un movimento di massa la cui piattaforma non può che essere l'opposto della frantumazione corporativa proposta dal ministro Sacconi e puntare al rafforzamento del lavoro dentro un a riconversione pubblica ed ambientale dell'economia. L'autunno è cominciato, ricostruiamo nelle lotte con i lavoratori e le lavoratrici l'utilità sociale del nostro partito e il senso e l'orgoglio della nostra militanza comunista.

mercoledì 26 agosto 2009

Contro le gabbie politiche e sociali. Una strategia per un autunno di lotta

di Dino Greco, direttore di Liberazione

Giuliano Amato ci ha regalato (Corriere della sera del 18 agosto) la più aggiornata versione della perdurante vocazione trasformistica della politica italiana, quella che - abiurato financo il termine di sinistra - ama proporsi con lo stigma sbiaditissimo del riformismo, anch'esso moderato, come se il sostantivo non bastasse a connotarne le tiepide intenzioni.
L'ex ministro degli interni del governo Prodi, responsabile di non aver a suo tempo fatto nulla, dicasi nulla, per cambiare, anche solo parzialmente, quell'abominevole legge sull'immigrazione che porta, accoppiati, i nomi di Bossi e di Fini, oggi constata come "il ricatto delle estreme sia molto forte". Dove le estreme sono, in realtà, due destre, geograficamente connotate, entrambe al governo del Paese. L'una, la Lega, padrona del Nord, genuina interprete del neo-razzismo padano e sintesi estrema dell'egoismo territoriale, e l'altra, embrione nascente di un (improbabile) partito del Sud. E poiché entrambe congiurerebbero per la divisione dell'Italia, ecco che la nuova frontiera di un'alleanza progressista, capace di disarticolare la maggioranza di centrodestra, consisterebbe nella creazione di una grande coalizione italiana, magari sotto l'alto patrocinio del Presidente della Repubblica, capace di sventare ogni proposito secessionista. Questa ennesima sublimazione della lotta politica nel tatticismo, nelle geometrie politiciste della durata di un giorno o di una settimana, trova nel Pd orecchie ricettive. A guardare la sostanza, tutto si riduce nella scelta dei partners a cui rendersi gregari. I contenuti, i programmi, le scelte che dovrebbero qualificare la proposta politica e gli schieramenti ad essa consustanziali, non esistono. La gente non li vede, non perchè è orba, ma perchè non ci sono o, se ci sono, risultano talmente sbiaditi e confusi da rasentare l'evanescenza.
Si consideri la questione delle gabbie salariali. Solo una macroscopica superficialità può scambiare il rilancio fattone dalla Lega per una rodomontata agostana, per un espediente propagandistico escogitato al fine di catturare qualche voto. Le gabbie salariali non sono - come maramaldescamente dice Bossi - le condizioni per "rinunciare alla secessione": le gabbie (per il loro contenuto e per l'inedita modalità con cui la Lega propone siano attuate, attraverso un intervento geograficamente differenziato sull'Irpef) "sono" la secessione.
Sin dall'inizio, con brusche accelerazioni alternate a momentanee ritirate, la Lega "pratica l'obiettivo", per raggiungere lo scopo che è nel suo imprinting originario. Essa ha trasformato una palese contraddizione in un formidabile vantaggio: l'essere un partito nordista, secessionista e, contemporaneamente, essere parte integrante di un governo nazionale.
La Lega fa un uso cinicamente strumentale della propria collocazione border line per esercitare un vero potere di interdizione, di condizionamento, di indirizzo dell'azione di governo, lungo una traiettoria eversiva dell'unità nazionale non meno che dei principi costituzionali. Ma cosa rende possibile questo paradosso della politica? Cosa fa sì che in quelle che un tempo furono le roccaforti operaie, teatro del più duro e maturo conflitto sociale, ora si affermi così estesamente l'egemonia leghista? Quale artifizio cuce insieme interessi sociali così difficili da comporre: quello del padroncino che si arricchisce sfornando a raffica fatture false e quello del suo dipendente a reddito fisso con trattenuta fiscale alla fonte; quello di estesi strati di piccola borghesia urbana e del terziario commerciale campioni dell'evasione e quelli del pensionato che non sa più come tirare avanti? Se per Berlusconi tutto ciò non costituisce alcun problema, essendo in parte egli espressione - come notava Eugenio Scalfari su La Repubblica di domenica - della stessa cultura, rimane da chiedersi come la sinistra abbia eluso (e continui ad eludere) la domanda di fondo che vi è sottesa, e cioè come nell'Italia ove si affermò il più grande partito comunista dell'occidente e che ancora oggi vede la presenza di un forte sindacato confederale, dilaghi fra gli strati popolari la più rozza ideologia interclassista. In ragione della quale l'operaio pensa alla propria marginalità non già come alla conseguenza dei rapporti di produzione dati, ma come ad un fenomeno esogeno, importato dall'esterno, con l'immigrazione, prima meridionale, poi extracomunitaria e quindi con lo Stato usurario che risucchia il frutto del suo lavoro per mantenere una casta sprecona e parassitaria. La propria oggettiva condizione di sfruttato è totalmente rimossa. Riemerge ora, nelle forme possibili, sotto la sferza della crisi. E se ne coglie tutta la fatica dalle risposte, slegate l'una dall'altra, prive di coordinamento, prima sindacale che politico. Ne è protagonista l'operaio che nella disperazione e nella solitudine le prova tutte. Anche salendo in cima ad una gru, arrampicandosi su un silos, o barricandosi dentro il Colosseo. Liberazione ha sostenuto sino in fondo, giorno dopo giorno, la lotta degli operai dell'Innse. Perché era giusta, perché dimostrava che l'interesse generale passava per quegli operai e non per le miserabili speculazioni di un avventuriero e perché rilanciava la consapevolezza, da tempo mortificata, che il conflitto non è un atto di velleitaria testimonianza, consegnato alla sconfitta, ma può portare alla vittoria. Al tempo stesso, quella lotta, quel gesto estremo di ribellione è lo specchio di una crisi di rappresentanza, un sussulto che fatica a trovare un punto di coagulo, malgrado l'impegno della Fiom. Eppure, questa impennata d'orgoglio è bastata ad allarmare il caporione leghista, a fargli materializzare davanti agli occhi il fantasma della lotta di classe: «non è più il tempo di quella roba lì...gli imprenditori sono poveri disgraziati che non ce l'hanno con gli operai...vogliono anche loro salvare le fabbriche». Bossi teme la riconquista di una coscienza di sé da parte dei lavoratori come la peggiore sciagura perché essa dissolve quella perversa solidarietà verticale (fra padrone e operaio) sulla quale la Lega ha costruito le sue fortune politiche. Il fatto è che non basteranno né dieci né cento Innse se quelle pur generose lotte rimarranno orfane di un progetto prima sindacale e poi politico unificanti.

Il centrodestra ha costruito insieme a Confindustria e ad un pezzo del sindacato confederale una linea chiara ed un blocco sociale che la sostiene: massima flessibilità contrattuale, impoverimento e disarticolazione del contratto nazionale attraverso un micidiale dispositivo derogatorio, contenimento coatto delle retribuzioni in virtù di un sistema di relazioni industriali che funziona come una camicia di forza e trasforma il lavoro umano, del tutto deprivato di qualsiasi soggettività, in un docile strumento del comando d'impresa. Con un simile armamentario, destinato a peggiorare, dentro la crisi, le condizioni di reddito e di vita di milioni di persone, non si fronteggia certo l'offensiva della Lega, né quella più sofisticata, ma di analogo significato, di Sacconi e compagnia.
L'affannosa rincorsa degli attori dello sciagurato patto di gennaio ("detassiamo tutto il salario frutto della contrattazione decentrata") non è che la patetica e fraudolenta confessione dell'incapacità di garantire un sostegno reale ai salari. Patetica: perché il secondo livello negoziale, composto - di per sé - di salario variabile e perciò aleatorio, è appannaggio di una quota davvero modesta di lavoratori; fraudolenta: perché ricorre alla fiscalità generale per non mettere in discussione la quota di reddito che va ai profitti e alle rendite. Su questa strada, sarà Sacconi, inesorabilmente, a raccogliere i frutti. Aggiungete il fatto che, con la fine di agosto, saranno molte le aziende - in particolare quelle di piccole dimensioni, che costituiscono l'ossatura del nostro apparato industriale - a non riaprire. La rete di protezione offerta dal vigente sistema di ammortizzatori sociali è talmente esile e scarnificata da ridurre in povertà milioni di persone che già raschiavano l'osso. Viene così al pettine l'altro nodo di una fallimentare politica sociale, che ha la sua origine non troppo remota nella rinuncia del governo Prodi e del sindacato (questa volta tutto intero) di investire su un'autentica riforma del welfare.

Il pessimo stato delle cose presenti chiama direttamente in causa la Cgil, che sulla linea del traguardo e sotto la pressione di metalmeccanici e pubblici seppe smarcarsi, scongiurando in extremis una capitolazione dalle conseguenze devastanti. Senza tuttavia rendersi capace di una revisione di fondo della linea che l'aveva portata sin nel collo dell'imbuto. Oggi, di fronte alla concentrica pressione che grava su di essa, la Cgil somiglia all'asino di Buridano: in perfetto stallo, incapace di scegliere fra i due mucchi di fieno, vale a dire fra le due vere ipotesi che le si presentano: rientrare nei ranghi e completare la propria mutazione subalterna, oppure svoltare radicalmente e ricostruirsi come sindacato che attinge alla democrazia come sua fondamentale risorsa. E capace di ripensare un modello contrattuale e di relazioni industriali che faccia della redistribuzione del reddito dai profitti ai salari la propria bussola: un contratto nazionale a cui si riconosca (e non si inibisca!) la facoltà di aumentare il valore reale delle retribuzioni, una contrattazione decentrata svincolata dalla redditività di impresa, un meccanismo automatico di indicizzazione dei salari al costo della vita, l'eliminazione del drenaggio fiscale. E, infine, ma non da ultimo, l'introduzione di una tassa di scopo pluriennale per finanziare i contratti di solidarietà ed il sostegno al reddito dei disoccupati. E' questo il primo indispensabile passo per riconferire al lavoro quella posizione di variabile indipendente di cui è stato espropriato. Se il lavoro non attribuisce a se stesso questa dignità, non c'è possibilità che gli venga riconosciuta dall'esterno: tanto meno dagli avversari.
Ecco una linea chiara, comprensibile, la sola capace di concorrere con la Lega e, contemporaneamente, opporsi all'altrimenti inesorabile processo di frantumazione sociale.

sabato 8 agosto 2009

Apriamo una cassa di resistenza




di Paolo Ferrero, Segretario Nazionale Rifondazione Comunista - Sinistra Europea


Fino a ieri alla sacrosanta lotta dei lavoratori dell’Innse veniva obiettato che non esisteva nessun imprenditore disponibile a proseguire l’attività industriale dell’azienda e che quindi la lotta era priva di sbocchi. Me lo sono sentito ripetere io stesso più e più volte in questi giorni in tutti i colloqui avuti con vari livelli istituzionali.
Ieri un imprenditore serio ha avanzato formalmente una “manifestazione di interesse” che prevede l’acquisto dell’azienda e dei capannoni e il rilancio dell’attività produttiva e dell’occupazione.
L’alibi secondo cui l’Innse è destinata a chiudere per mancanza di imprenditori è quindi caduto. Non esiste più e non può più essere invocato da nessuno.
Per questo abbiamo chiesto e chiediamo al governo e al Prefetto di Milano: 1) di ritirare immediatamente le truppe permettendo così ai compagni di scendere dal carro ponte e ai lavoratori dell’Innse di riprendere il presidio della loro fabbrica; 2) di aprire un tavolo di trattativa che – con i tempi necessari – permetta il passaggio di proprietà al nuovo imprenditore e la conseguente ripresa dell’attività produttiva; 3) nel caso in cui il Genta, attuale proprietario dell’azienda, non volesse addivenire alla cessione della fabbrica, chiediamo al Prefetto di requisirla al fine di permetterne il suo riutilizzo produttivo.
L’iniziativa economica privata, nel nostro Paese, non può essere infatti un dogma assoluto: la nostra Costituzione prevede che essa non si possa svolgere in contrasto con l’utilità sociale.
Le tre cose che chiediamo al governo e al Prefetto non sono la luna, ma il minimo indispensabile per dare una risposta positiva alla lotta dei lavoratori e alla giusta richiesta di una ripresa lavorativa e occupazionale all’Innse. Se questo non dovesse avvenire sarebbe del tutto evidente che il governo e i suoi organi periferici non solo sarebbero responsabili della chiusura e dello smantellamento dell’Innse ma, nei fatti, utilizzerebbero la forza pubblica con il solo fine di tutelare gli interessi privati di uno speculatore legato alla Lega Nord.
E’ quindi possibile che la vicenda dell’Innse si incammini sulla buona strada dopo che il blitz agostano delle forze dell’ordine - che aveva l’effetto di permettere a Genta di fare i suoi porci comodi – aveva rischiato di compromettere la lotta che dura da mesi. E’ bene aver chiaro che il possibile esito positivo è dovuto unicamente alla lotta dei lavoratori dell’Innse e, nello specifico, dall’aver scelto una forma di lotta “alla francese”, che ha attirato l’attenzione dei media e imposto l’interruzione dello smontaggio dello stabilimento.
Mettere sotto chiave un manager o salire su un carro ponte poco importa; il nodo è obbligare la politica ad occuparsi della questione sociale e aprire uno spazio di contrattazione.
Questo vuol dire che attraverso la lotta è possibile modificare la volontà dei padroni: lo hanno sperimentato positivamente i lavoratori dell’Indesit come quelli di Fincantieri che hanno vinto proprio grazie a lunghi mesi di lotta compatta e determinata. I lavoratori dell’Innse ci indicano quindi la strada da seguire per l’autunno, lotta da generalizzare fabbrica per fabbrica, determinata e visibile, obbligando la politica ad occuparsi della questione sociale. Proprio per raggiungere una soluzione positiva e affinché la lotta dell’Innse possa costituire un esempio per tutti i lavoratori e le lavoratrici delle aziende sotto attacco occupazionale, occorre mettere i lavoratori in condizione di poter proseguire la lotta.
Per questo apriamo oggi una cassa di resistenza per sostenere la lotta dei lavoratori dell’Innse a cui invito tutti i compagni e le compagne a contribuire. Nessuno deve restare solo nella crisi, a partire da chi lotta.

Cassa di resistenza lavoratori INNSE
Partito della Rifondazione Comunista
codice Iban IT95G0312703201cc0340000782

Insistiamo: requisitela!

di Dino Greco, direttore di Liberazione

Guardiamo la questione da un altro punto di osservazione. Quello degli imprenditori, presi non individualmente, ma nella loro dimensione associativa. Diciamo pure come classe. Una classe che, ripetutamente in questi anni, ha voluto interpretare in proprio gli interessi generali del Paese, avanzando ricette e pretese su tutto e su tutti, dando prova di un’ inesauribile voracità: verso i lavoratori, e verso i loro sindacati innanzitutto, ai quali sono state imposte (con successo) silenziosa acquiescienza, flessibilità, complicità addirittura, per favorire la ripresa di un ingranaggio produttivo totalmente inceppato; sui governi e sul Parlamento, a cui hanno chiesto (con altrettanto e ancor più clamoroso successo) di segare un già precario sistema di protezione sociale per trasferire a sé stessi ingenti risorse pubbliche, poi non esattamente destinate, come abbiamo visto nel recente passato, ad un uso virtuoso, considerata la drastica caduta degli investimenti produttivi.
Bene: questi millantatori di un ruolo di tutela degli interessi della nazione non sono in grado, sempre nella loro dimensione associativa, di proferire una sola parola su quanto sta avvenendo all’Innse di Lambrate.
Confindustria, Assolombarda restano mute come pesci. Sono certo che neppure sono sfiorate dal dubbio che competerebbe loro dire qualcosa, farsi carico di una qualche responsabilità circa la rovinosa performance imprenditoriale che sta distruggendo una fabbrica sana, dal nome prestigioso, umiliando i suoi operai ed un’intera cittadinanza.
Ecco: qui l’interesse generale, non più presunto ma reale, scompare. Fa testo - e detta legge - solo la volontà, quale che sia, del singolo padrone cui tutto si deve lasciar fare. Anche se si ha di fronte il più squalificato speculatore. Ovviamente, questa ineffabile noncuranza, nel nome della libertà, la sola legittima, quella sacrale dell’impresa, che sovrasta e rimuove qualsiasi altro diritto. Eppure, in questa sconcertante vicenda, la cosa più stupefacente è l’assordante silenzio delle istituzioni, che invece del bene comune dovrebbero a buon titolo essere - sentirsi!- rappresentanti. Invece esse stanno pilatescamente lasciando che un pugno di operai faccia, in
drammatica solitudine, quello di cui esse dovrebbero rendersi interpreti.
Vi è da chiedersi quali sotterranei interessi, quali inconfessabili calcoli paralizzino le amministrazioni locali, a partire dal comune di Milano, per arrivare alla potente giunta regionale lombarda. Oppure se tanta colpevole ignavia sia semplicemente il prodotto della convinzione che nel conflitto sociale sono i lavoratori, sempre e comunque, a dover soccombere.
Allora, nuovamente, torniamo ad insistere: signori, tocca a voi agire. Ne avete gli strumenti: requisite l’Innse. Obbligate Genta ad abbassare la cresta. Create le condizioni per un negoziato che porti finalmente alla ripresa dell’attività: con altri imprenditori, come pare ve ne siano;oppure attraverso la mano pubblica; oppure ancora, semmai ve ne fosse la disponibilità dei diretti interessati, in una forma autogestita, che le istituzioni locali hanno tutta la possibilità di sostenere, politicamente ed economicamente. Sarebbe un segnale vero, un chiaro cambiamento di passo, un po’ di aria pulita in questo disastrato Paese.

mercoledì 5 agosto 2009

Le ingerenze del Vaticano

di Massimiliano Vigo - componente del Direttivo di Circolo

Cari Compagni,
ogni occasione è buona per il Vaticano, la Cei. i cardinali, i vescovi sostenuti dai falsi benpensanti italiani, per ingerirsi in maniera pressante negli affari di uno Stato sovrano quale penso sia ancora l'Italia: l'ultima tra queste è legata alla pillola abortiva RU 486 che ha visto la Chiesa Cattolica ( e solo quella) lanciare strali di stampo medioevale arrivando anche a minacciare la scomunica per le donne utilizzatrici del farmaco e per i medici che lo prescrivono.
Per dirimere una volta per tutte la questione dell'ingerenza di ogni fede religiosa, negli affari privati della gente e della repubblica italiana proporrei una legge ad hoc.
Ogni italiano, al compimento dei 18 anni di età deve dichiarare la propria appartenenza religiosa , o il proprio ateismo, o agnosticismo o "non me ne frega niente"; la dichiarazione andrebbe poi annotata su tutti i documenti e inserita in un database nazionale; ogni persona a questo punto avrebbe l'obbligo di attenersi alle regole morali ed etiche imposte dal proprio credo.
Faccio un esempio, il sottoscritto ateo praticante, va in farmacia per comperare dei preservativi, il farmacista controlla il documento e visto il mio ateismo me li vende , ma se a richiedere dei preservativi o la pillola anticoncezionale si presentasse, che so, una donna che si dichiara cattolica, scatterebbe l'impedimento a vendere questi prodotti. Un avvocato prima di iniziare una pratica di separazione o divorzio dovrebbe controllare la posizione " religiosa" dei coniugi, un testimone di Geova con una grave emorragia interna si vedrebbe negare a priori una trasfusione di sangue…e gli esempi sarebbero tanti.
Ammetto che una legge simile sarebbe una cosa assolutamente demenziale oltre che anticostituzionale, ma mi piacerebbe vedere quanti italiani avrebbero il coraggio di dichiararsi ufficialmente appartenenti ad una qualsiasi fede religiosa che impedisse loro anche le più normali scelte di vita.