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13 marzo 2008

Antonio è morto di lavoro

di Stefano Bocconetti - da Liberazione del 13/3/2008

Il lavoro uccide. Ma può uccidere anche quando non c'è, quand'è precario, quando la busta paga arriva un mese sì e l'altro no. Partiamo da quello che tutti sanno, che tutti hanno imparato a conoscere dalla cronaca di questi mesi, di questi anni: la fabbrica uccide. E' (ri)successo - per la 118° volta solo in Piemonte - l'altra sera, quando dall'ingranaggio di una gigantesca macchina che assomiglia ad una pressa, è partito un cuscinetto a sfera. S'è spezzato ed è schizzato via. Trasformandosi in un micidiale proiettile. Antonio, trentasette anni, che stava riparando proprio quella pressa è stato colpito allo stomaco. Probabilmente neanche si è accorto di quel che stava accadendo. E' morto subito. Uccide la fabbrica, allora, continua ad uccidere la fabbrica. Ma uccide anche la precarietà. Perché a venti chilometri dall'ennesimo omicidio bianco, venti chilometri più in là dalla Mac di Chivasso, esattamente nel cuneese, un operaio si è tolto la vita. Per tre mesi era riuscito a strappare un contratto alla "Berco". Un'azienda del gruppo ThyssenKrupp - sì, proprio la multinazionale della strage all'altoforno - che costruisce cingolati per i trattori, escavatrici, ruspe. Una fabbrica sindacalizzata, molto sindacalizzata. Dove i lavoratori sono riusciti a conquistare stabili relazioni industriali con la controparte e dove il consiglio dei delegati, ogni tanto, riesce a strappare qualche posto di lavoro in più per i precari. Qualche volta. Non sempre. Così Luigi, fra pochi mesi quarant'anni, s'era trovato col contratto da "interinale" scaduto. Le speranze che glielo rinnovassero erano svanite qualche giorno fa. Colpa di un mercato, del mercato americano, che non "tira" come dovrebbe. In quel lavoro, in quel posto Luigi Roca ci aveva però sperato. E quando ha capito che il rinnovo non sarebbe arrivato non ha retto. S'è ucciso. Alla moglie, ai due figli piccoli, ha lasciato un biglietto: «Senza lavoro ho perso anche la dignità». E si è impiccato. Luigi Roca ha aspettato di essere solo nella sua piccola casa a Rocca Canavese, un paese che si trova solo sulle mappe più dettagliate, e si è ucciso. L'ha fatto in quella casa, che da anni era la sua prima preoccupazione, con quel mutuo che l'assillava. Che assillava lui e sua moglie. Anche lei operaia. E dire che appena pochi mesi fa la sua vita sembrava davvero vicina ad una svolta. Perché da anni, Luigi viveva aspettando la chiamata di un'agenzia interinale. Di quelle che "affittano" il lavoro per due, tre mesi bene che va. Per quasi dieci anni ha vissuto così. Poi, la chiamata alla "Berco". Cento dipendenti, un buon clima, i vecchi operai che si preoccupano di inserire i giovani nel ciclo produttivo. Nessuna gelosia. I delegati che si fermano a parlare con quei ragazzi che hanno un contratto a tempo determinato. Certo, qui è più facile: qui i precari sono pochissimi. Il mese scorso erano solo quattro. Perché questa è una lavorazione difficile. Che ha bisogno di conoscenze. Che non si imparano da un giorno all'altro.
Ma anche questa piccola comunità nulla ha potuto davanti alla "dura realtà" delle cifre. La "Berco" ha fatto sapere che c'erano problemi nel mercato statunitense, il settore delle costruzioni stenta oltre Oceano. Così l'azienda ha deciso di non rinnovare i contratti. Certo, i rappresentanti sindacali - qui c'è quasi solo la Fiom e un po' di Cobas - avevano già strappato l'impegno che se dagli States ricominceranno le ordinazioni, quei quattro sarebbero stati riassunti. E stavolta a tempo indeterminato. Come è già accaduto tante altre volte. E i delegati avevano anche spiegato la situazione a Luigi. Ma a lui non è bastato. Perché ci aveva davvero sperato. E s'è sentito solo.
Chi lo conosce racconta che assieme al dramma della precarietà c'era anche «qualche problema in più». Usano proprio quest'espressione, molto asettica. Luigi, forse, aveva ancora qualche problema con la droga. Forse. Nessuno te lo sa dire con certezza. Come se fosse e dovesse restare un problema privato di quell'operaio. Come se non fosse una condizione comune a tanti della sua generazione, a tante persone, a tanti giovani di quelle parti. Di quella età. Come se non fosse una questione sociale. Due volte emarginato, allora. S'è sentito solo e s'è tolto la vita. Ucciso da una precarietà, che dopo un decennio, non riguardava più solo il suo rapporto col lavoro. Ma aveva invaso tutta la sua vita.
Ucciso. Esattamenmte come quel suo "collega" che probabilmente neanche conosceva, colpito da un enorme cuscinetto a sfera. Ucciso mentre riparava una macchina. Ucciso, per dirla col segretario della Fiom di Torino, Airaudo, da un sistema che deve andare sempre più veloce: le macchine non possono stare ferme, chi fa la manutenzione deve sbrigarsi, per far ripartire l'impianto. Dove, con la stessa fretta, devono lavorare altre centinaia di persone. Uccisi dallo stesso sistema. Che non può essere cambiato dagli imprenditori. Che probabilmente non può essere cambiato "assieme" agli imprenditori.

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