Si sono spese molte parole intorno alla crisi economico-sociale che sta colpendo il nostro Paese, una crisi nata da una parte come riflesso della grave congiuntura finanziaria globale e dall’altra come naturale evoluzione di tre decenni di politiche economiche nazionali incentrate sul massimo profitto per le aziende e la minima ridistribuzione dei guadagni per i lavoratori.
In maniera molto subdola e strisciante le lobbies, detentrici del potere economico, sono riuscite ad estromettere lo Stato dalla gestione dei settori produttivi trainanti in nome di una liberalizzazione e di una privatizzazione che solo sulla carta avrebbero portato benefici per tutti. In nome del libero mercato abbiamo invece assistito all’aumento sì della ricchezza, ma solo per chi già ricco era, mentre per contro si è precarizzato il lavoro, si è diminuito il potere di acquisto dei salari, si sono ridotti i diritti sociali; si è, in pratica, messa in ginocchio la vera forza produttiva del paese rappresentata da tutti quei lavoratori che per anni hanno portato e sopportato il peso di decisioni politiche ed economiche ingiuste e fallimentari.
Ma come si suol dire tutti i nodi vengono al pettine ed ora che la crisi si è palesata in tutta la sua gravità assistiamo ancora a manovre di economia creativa nel vano tentativo di raddrizzare una situazione ormai degenerata; mentre in molti paesi europei lo Stato si lancia nel salvataggio delle banche in crisi chiedendo garanzie che si estrinsecano nella nazionalizzazione o nel controllo degli istituti bancari salvaguardati dal denaro pubblico (Islanda, Regno Unito) o quantomeno indicando un tetto massimo di copertura finanziaria (Germania, Francia), il Governo Berlusconi “foraggia” indiscriminatamente banche, grandi industrie, gruppi imprenditoriali, senza chiedere alcun tipo di garanzia e senza fissare alcun tetto di spesa. Per poter portare avanti questa sua politica di appoggio incondizionato, Berlusconi e il suo Governo non trovano di meglio che andare a colpire laddove è più facile intervenire, laddove minore è la forza di reazione: si colpisce il lavoratore, direttamente e indirettamente.
Assistiamo a tagli indiscriminati alla scuola, alla sanità, ai servizi sociali, ai servizi in genere, aumenta la precarizzazione del lavoro, continuano i tentativi, appoggiati da alcune sigle sindacali, di svuotare la contrattazione nazionale di lavoro in favore di contrattazioni ad personam, di abolire l’articolo 18, di azzerare l’autonomia del sindacato e dei suoi rappresentati. In cambio si chiede ai lavoratori di lavorare di più per produrre di più, si chiede al lavoratore di mettersi a completa disposizione del mercato per permettere alla nostra economia di “girare” di rimettersi in moto.
Esempio di questa tendenza è la “controriforma” dell’attuale sistema contrattuale che vorrebbe aumentata a tre anni la durata del contratto legando gli aumenti salariali da una parte ad un indice di inflazione dal quale sono esclusi gli aumenti dei costi dell’energia e delle materie prime importate assumendo come base di calcolo i soli minimi tabellari e dall’altra alla produttività aziendale (con tutta la sua aleatorieta’) con contratti di secondo livello che, vista la parcellizzazione delle imprese italiane, potrà essere applicato solo al 20% delle stesse.
A questa impostazione delle cose Rifondazione Comunista non può che opporsi e lo slogan NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO racchiude in sé la condanna ad un modo di fare politica che va a solo vantaggio dei pochi.
Rifondazione chiede, e le manifestazioni che ci sono state a partire da quella di Roma dell’11 Ottobre scorso, ne sono la testimonianza che il Governo ancor prima di battersi a favore di Confindustria e dei suoi interessi corporativistici, si batta per la difesa dell’occupazione, per un aumento tangibile dei salari e delle pensioni, per una equa distribuzione della ricchezza accumulata e prodotta per anni da una classe economica oligarchica, per una generalizzazione degli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti i settori e a tutti i contratti di lavoro precari compresi, per il riconoscimento dei diritti di tutti quei lavoratori migranti che rischiano di pagare ancora più degli altri la crisi con la perdita del lavoro e di conseguenza con l’espulsione.
Tutto questo va accompagnato da una tangibile politica sociale che non sia quella della “social card” che tanto ricorda le tessere annonarie della II Guerra Mondiale; per contrastare il carovita la via da percorrere è quella del controllo pubblico di prezzi e tariffe, l’istituzione di autorità che abbiamo poteri reali di sanzione nei confronti di cartelli trust e monopoli; va rilanciata l’edilizia pubblica a favore di tutte quelle famiglie che si vedono dimezzare i magri stipendi da affitti fuori mercato e fuori da ogni controllo e contemporaneamente vanno abbattuti i tassi sui mutui per l’acquisto della prima casa. Importanza particolare va attribuita alla lotta all’evasione fiscale e contributiva dalla quale, se attuata capillarmente, si potrebbero ricavare ingenti risorse da destinarsi al miglioramento delle condizioni dei ceti più deboli. Così come altre risorse potrebbero e dovrebbero essere recuperate tassando in maniera puntuale le grandi rendite finanziarie e colpendo con un’aliquota “europea” (almeno il 20%) i grandi movimenti speculativi dei capitali.
Altrettanta importanza assume, poi, il rilancio delle politiche industriali attraverso la promozione della ricerca, con investimenti dedicati alla riconversione delle produzioni industriali più inquinanti con lo scopo di renderle più rispondenti alle necessità legate alla crisi energetica, ambientale e climatica.
Dunque non solo NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO, ma LA CRISI LA PAGHI CHI L’HA CAUSATA!
In maniera molto subdola e strisciante le lobbies, detentrici del potere economico, sono riuscite ad estromettere lo Stato dalla gestione dei settori produttivi trainanti in nome di una liberalizzazione e di una privatizzazione che solo sulla carta avrebbero portato benefici per tutti. In nome del libero mercato abbiamo invece assistito all’aumento sì della ricchezza, ma solo per chi già ricco era, mentre per contro si è precarizzato il lavoro, si è diminuito il potere di acquisto dei salari, si sono ridotti i diritti sociali; si è, in pratica, messa in ginocchio la vera forza produttiva del paese rappresentata da tutti quei lavoratori che per anni hanno portato e sopportato il peso di decisioni politiche ed economiche ingiuste e fallimentari.
Ma come si suol dire tutti i nodi vengono al pettine ed ora che la crisi si è palesata in tutta la sua gravità assistiamo ancora a manovre di economia creativa nel vano tentativo di raddrizzare una situazione ormai degenerata; mentre in molti paesi europei lo Stato si lancia nel salvataggio delle banche in crisi chiedendo garanzie che si estrinsecano nella nazionalizzazione o nel controllo degli istituti bancari salvaguardati dal denaro pubblico (Islanda, Regno Unito) o quantomeno indicando un tetto massimo di copertura finanziaria (Germania, Francia), il Governo Berlusconi “foraggia” indiscriminatamente banche, grandi industrie, gruppi imprenditoriali, senza chiedere alcun tipo di garanzia e senza fissare alcun tetto di spesa. Per poter portare avanti questa sua politica di appoggio incondizionato, Berlusconi e il suo Governo non trovano di meglio che andare a colpire laddove è più facile intervenire, laddove minore è la forza di reazione: si colpisce il lavoratore, direttamente e indirettamente.
Assistiamo a tagli indiscriminati alla scuola, alla sanità, ai servizi sociali, ai servizi in genere, aumenta la precarizzazione del lavoro, continuano i tentativi, appoggiati da alcune sigle sindacali, di svuotare la contrattazione nazionale di lavoro in favore di contrattazioni ad personam, di abolire l’articolo 18, di azzerare l’autonomia del sindacato e dei suoi rappresentati. In cambio si chiede ai lavoratori di lavorare di più per produrre di più, si chiede al lavoratore di mettersi a completa disposizione del mercato per permettere alla nostra economia di “girare” di rimettersi in moto.
Esempio di questa tendenza è la “controriforma” dell’attuale sistema contrattuale che vorrebbe aumentata a tre anni la durata del contratto legando gli aumenti salariali da una parte ad un indice di inflazione dal quale sono esclusi gli aumenti dei costi dell’energia e delle materie prime importate assumendo come base di calcolo i soli minimi tabellari e dall’altra alla produttività aziendale (con tutta la sua aleatorieta’) con contratti di secondo livello che, vista la parcellizzazione delle imprese italiane, potrà essere applicato solo al 20% delle stesse.
A questa impostazione delle cose Rifondazione Comunista non può che opporsi e lo slogan NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO racchiude in sé la condanna ad un modo di fare politica che va a solo vantaggio dei pochi.
Rifondazione chiede, e le manifestazioni che ci sono state a partire da quella di Roma dell’11 Ottobre scorso, ne sono la testimonianza che il Governo ancor prima di battersi a favore di Confindustria e dei suoi interessi corporativistici, si batta per la difesa dell’occupazione, per un aumento tangibile dei salari e delle pensioni, per una equa distribuzione della ricchezza accumulata e prodotta per anni da una classe economica oligarchica, per una generalizzazione degli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti i settori e a tutti i contratti di lavoro precari compresi, per il riconoscimento dei diritti di tutti quei lavoratori migranti che rischiano di pagare ancora più degli altri la crisi con la perdita del lavoro e di conseguenza con l’espulsione.
Tutto questo va accompagnato da una tangibile politica sociale che non sia quella della “social card” che tanto ricorda le tessere annonarie della II Guerra Mondiale; per contrastare il carovita la via da percorrere è quella del controllo pubblico di prezzi e tariffe, l’istituzione di autorità che abbiamo poteri reali di sanzione nei confronti di cartelli trust e monopoli; va rilanciata l’edilizia pubblica a favore di tutte quelle famiglie che si vedono dimezzare i magri stipendi da affitti fuori mercato e fuori da ogni controllo e contemporaneamente vanno abbattuti i tassi sui mutui per l’acquisto della prima casa. Importanza particolare va attribuita alla lotta all’evasione fiscale e contributiva dalla quale, se attuata capillarmente, si potrebbero ricavare ingenti risorse da destinarsi al miglioramento delle condizioni dei ceti più deboli. Così come altre risorse potrebbero e dovrebbero essere recuperate tassando in maniera puntuale le grandi rendite finanziarie e colpendo con un’aliquota “europea” (almeno il 20%) i grandi movimenti speculativi dei capitali.
Altrettanta importanza assume, poi, il rilancio delle politiche industriali attraverso la promozione della ricerca, con investimenti dedicati alla riconversione delle produzioni industriali più inquinanti con lo scopo di renderle più rispondenti alle necessità legate alla crisi energetica, ambientale e climatica.
Dunque non solo NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO, ma LA CRISI LA PAGHI CHI L’HA CAUSATA!
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