da Ramallah - Paolo Ferrero e Fabio Amato
La notizia dell’inizio dell’attacco israeliano a Gaza ci arriva mentre salutiamo Mustafà Barghouti, l’ultimo in ordine di tempo di una serie di incontri con i leaders di tutte le forze della sinistra palestinese. Ci aveva appena raccontato della drammatica situazione che aveva visto poche settimane prima, quando era riuscito ad aggirare il blocco della striscia, arrivando via mare, da Larnaca, a Gaza.
Una situazione disumana, con condizioni di vita sempre più misere. Più di un milione di persone senza cibo, medicinali, elettricità, acqua. Questa è la Gaza che viene bombardata indiscriminatamente dall’esercito israeliano. Questa è la Gaza che subisce una rappresaglia di violenza inaudita, sproporzionata e completamente ingiustificata, per la rottura del cessate il fuoco e l’irresponsabile lancio di missili qassam da parte di Hamas. Mesi di privazioni iniziate con la vittoria del movimento islamico nelle elezioni parlamentari del 2006 e che hanno visto solo peggiorare giorno dopo giorno la situazione. Due anni di blocco e assedio.
Le tv arabe rimandano in tutti i territori e in tutto il mondo le immagini di quella che è stata annunciata dall’esercito israeliano e accreditata dai suoi più accondiscendenti alleati – a partire dagli USA e dal governo italiano- come un operazione chirurgica. Al contrario, un massacro. Centinaia di corpi, di donne e uomini, di bambini, ricoperti di sangue, trasportati negli ospedali in cui manca di tutto. Sono queste immagini a scatenare la rabbia dei ragazzi di Qalandia, Ramallah, di Hebron, come di Jenin, che subito riempiono le strade o sfidano i soldati israeliani con il lancio di pietre e fionde. Li abbiamo visti al Check point di Qalandia –, accucciati dietro ad un terrapieni a tirare pietre mentre i soldati israeliani semplicemente sparavano con il fucile. E non sparavano lacrimogeni. Nessuno si aspettava un attacco cosi repentino. Si stava ancora cercando di far ripartire canali politico negoziali quando il girono di Natale abbiamo incontrato Abu Mazen ci aveva preannunciato la sua visita odierna in Arabia Saudita per tentare la ripresa di un canale diplomatico, sia con Israele che con Hamas. L’attacco degli aerei israeliani è stato sferrato mentre Abu Mazen era in volo, a segnare ancora di più quell’impotenza dell’autorità nazionale palestinese che uscirà da questa vicenda ancora più indebolita.
Perché in realtà la situazione è paradossalmente ancora più grave di quella che si possa immaginare guardando le immagine delle centinaia di morti di Gaza. Il problema vero è che oggi in Palestina non ci troviamo di fronte ad un processo di pace interrotto o che procede a rilento. Ci troviamo di fronte alla costruzione concreta di un regime di apartheid, che strutturalmente rende impossibile la realizzazione di quanto stabilito dagli accordi e cioè la costruzione di due stati per due popoli. La costruzione dell’apartheid non è dichiarata ma praticata e la costruzione del muro – meglio sarebbe dire dei muri – costituisce la sua affermazione concreta. Oggi in Medio Oriente non abbiamo un territorio palestinese e uno israeliano ma bensì un territorio israeliano che si espande progressivamente con nuovi insediamenti di “coloni” che vengono difesi dalla polizia e dall’esercito israeliano e uniti da strade che sono utilizzabili solo da auto con targa israeliana. Parallelamente i check point rendono gli spostamenti dei palestinesi dei calvari interminabili, senza contare che i varchi nel muro, possono essere chiusi in ogni momento. I diritti dei palestinesi semplicemente non esistono perché possono essere sospesi in ogni momento, in ogni luogo, per qualsiasi motivo, dalle forze dell’ordine. Come ci ha detto un pastore luterano incontrato a Betlemme, la Palestina sembra una fetta di gruviera, dove Israele ha il formaggio e i palestinesi i buchi. Questa condizione che caratterizza la situazione degli ultimi anni è oggi aggravata da due elementi.
Da un lato la campagna elettorale israeliana. Per paura che le forze della destra aumentino i consensi, le forze di governo hanno nei fatti cominciato la campagna elettorale attaccando Gaza. Mettere i palestinesi in una condizione ancora peggiore è il vero motivo su cui si giocheranno – in nome della sicurezza – due mesi di campagna elettorale.
In secondo luogo il cambio della leadership statunitense, con i fratelli musulmani di cui fa parte Hamas – e con l’appoggio dell’Iran - che hanno tutta l’intenzione di accreditarsi come vero interlocutore con cui dover scendere a patti da parte degli USA.
E’ quindi tutto il processo di pace e la possibilità di costruire due stati per due popoli che viene bombardato a Gaza.
Per questo è necessario che un aiuto immediato venga dall’esterno. Occorre lavorare da subito e mobilitarsi per richiedere la fine dell’aggressione a Gaza e la fine dell’operazione militare che negli annunci dell’esercito israeliano dovrebbe durare vari giorni ed estendersi ulteriormente. Dobbiamo chiedere che il governo italiano e l’Europa chiedano con nettezza la fine incondizionata dell’aggressione da parte israeliana. Si riunisca d'urgenza il consiglio generale delle Nazioni Unite. Occorre chiedere che queste non si accodino, come da troppo tempo succede, a quanto sosterranno gli Stati Uniti, o - peggio ancora,- si producano in vuote dichiarazioni di buon senso a cui non seguirà nulla.
Il silenzio sul boicottaggio continuo, quotidiano degli accordi di pace, diventa complicità e questa complicità deve essere d enunciata per poter essere fermata.
I ragazzi palestinesi sono scesi in piazza oggi spontaneamente rischiando la vita. Domani (oggi per chi legge) è stato proclamato uno sciopero generale dei territori. Facciamo sentire la nostra voce anche noi, che non rischiamo nulla, per denunciare l’aggressione e per chiedere la fine immediata di ogni azione militare. Perché è con la politica e non con i missili che si può costruire la pace in Medio Oriente.
GAZA, FERRERO CON SINISTRA ISRAELIANA: “FERMARE RAID E CONSENTIRE ACCESSO AIUTI”
La notizia dell’inizio dell’attacco israeliano a Gaza ci arriva mentre salutiamo Mustafà Barghouti, l’ultimo in ordine di tempo di una serie di incontri con i leaders di tutte le forze della sinistra palestinese. Ci aveva appena raccontato della drammatica situazione che aveva visto poche settimane prima, quando era riuscito ad aggirare il blocco della striscia, arrivando via mare, da Larnaca, a Gaza.
Una situazione disumana, con condizioni di vita sempre più misere. Più di un milione di persone senza cibo, medicinali, elettricità, acqua. Questa è la Gaza che viene bombardata indiscriminatamente dall’esercito israeliano. Questa è la Gaza che subisce una rappresaglia di violenza inaudita, sproporzionata e completamente ingiustificata, per la rottura del cessate il fuoco e l’irresponsabile lancio di missili qassam da parte di Hamas. Mesi di privazioni iniziate con la vittoria del movimento islamico nelle elezioni parlamentari del 2006 e che hanno visto solo peggiorare giorno dopo giorno la situazione. Due anni di blocco e assedio.
Le tv arabe rimandano in tutti i territori e in tutto il mondo le immagini di quella che è stata annunciata dall’esercito israeliano e accreditata dai suoi più accondiscendenti alleati – a partire dagli USA e dal governo italiano- come un operazione chirurgica. Al contrario, un massacro. Centinaia di corpi, di donne e uomini, di bambini, ricoperti di sangue, trasportati negli ospedali in cui manca di tutto. Sono queste immagini a scatenare la rabbia dei ragazzi di Qalandia, Ramallah, di Hebron, come di Jenin, che subito riempiono le strade o sfidano i soldati israeliani con il lancio di pietre e fionde. Li abbiamo visti al Check point di Qalandia –, accucciati dietro ad un terrapieni a tirare pietre mentre i soldati israeliani semplicemente sparavano con il fucile. E non sparavano lacrimogeni. Nessuno si aspettava un attacco cosi repentino. Si stava ancora cercando di far ripartire canali politico negoziali quando il girono di Natale abbiamo incontrato Abu Mazen ci aveva preannunciato la sua visita odierna in Arabia Saudita per tentare la ripresa di un canale diplomatico, sia con Israele che con Hamas. L’attacco degli aerei israeliani è stato sferrato mentre Abu Mazen era in volo, a segnare ancora di più quell’impotenza dell’autorità nazionale palestinese che uscirà da questa vicenda ancora più indebolita.
Perché in realtà la situazione è paradossalmente ancora più grave di quella che si possa immaginare guardando le immagine delle centinaia di morti di Gaza. Il problema vero è che oggi in Palestina non ci troviamo di fronte ad un processo di pace interrotto o che procede a rilento. Ci troviamo di fronte alla costruzione concreta di un regime di apartheid, che strutturalmente rende impossibile la realizzazione di quanto stabilito dagli accordi e cioè la costruzione di due stati per due popoli. La costruzione dell’apartheid non è dichiarata ma praticata e la costruzione del muro – meglio sarebbe dire dei muri – costituisce la sua affermazione concreta. Oggi in Medio Oriente non abbiamo un territorio palestinese e uno israeliano ma bensì un territorio israeliano che si espande progressivamente con nuovi insediamenti di “coloni” che vengono difesi dalla polizia e dall’esercito israeliano e uniti da strade che sono utilizzabili solo da auto con targa israeliana. Parallelamente i check point rendono gli spostamenti dei palestinesi dei calvari interminabili, senza contare che i varchi nel muro, possono essere chiusi in ogni momento. I diritti dei palestinesi semplicemente non esistono perché possono essere sospesi in ogni momento, in ogni luogo, per qualsiasi motivo, dalle forze dell’ordine. Come ci ha detto un pastore luterano incontrato a Betlemme, la Palestina sembra una fetta di gruviera, dove Israele ha il formaggio e i palestinesi i buchi. Questa condizione che caratterizza la situazione degli ultimi anni è oggi aggravata da due elementi.
Da un lato la campagna elettorale israeliana. Per paura che le forze della destra aumentino i consensi, le forze di governo hanno nei fatti cominciato la campagna elettorale attaccando Gaza. Mettere i palestinesi in una condizione ancora peggiore è il vero motivo su cui si giocheranno – in nome della sicurezza – due mesi di campagna elettorale.
In secondo luogo il cambio della leadership statunitense, con i fratelli musulmani di cui fa parte Hamas – e con l’appoggio dell’Iran - che hanno tutta l’intenzione di accreditarsi come vero interlocutore con cui dover scendere a patti da parte degli USA.
E’ quindi tutto il processo di pace e la possibilità di costruire due stati per due popoli che viene bombardato a Gaza.
Per questo è necessario che un aiuto immediato venga dall’esterno. Occorre lavorare da subito e mobilitarsi per richiedere la fine dell’aggressione a Gaza e la fine dell’operazione militare che negli annunci dell’esercito israeliano dovrebbe durare vari giorni ed estendersi ulteriormente. Dobbiamo chiedere che il governo italiano e l’Europa chiedano con nettezza la fine incondizionata dell’aggressione da parte israeliana. Si riunisca d'urgenza il consiglio generale delle Nazioni Unite. Occorre chiedere che queste non si accodino, come da troppo tempo succede, a quanto sosterranno gli Stati Uniti, o - peggio ancora,- si producano in vuote dichiarazioni di buon senso a cui non seguirà nulla.
Il silenzio sul boicottaggio continuo, quotidiano degli accordi di pace, diventa complicità e questa complicità deve essere d enunciata per poter essere fermata.
I ragazzi palestinesi sono scesi in piazza oggi spontaneamente rischiando la vita. Domani (oggi per chi legge) è stato proclamato uno sciopero generale dei territori. Facciamo sentire la nostra voce anche noi, che non rischiamo nulla, per denunciare l’aggressione e per chiedere la fine immediata di ogni azione militare. Perché è con la politica e non con i missili che si può costruire la pace in Medio Oriente.
GAZA, FERRERO CON SINISTRA ISRAELIANA: “FERMARE RAID E CONSENTIRE ACCESSO AIUTI”
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