di Giorgio Cremaschi, Segreteria Nazionale FIOM-CGIL
E' cominciata nella Cgil la discussione sul congresso. Un congresso sul quale si appuntano attenzioni diverse, alcune amichevoli, altre malevole, comunque tutte profondamente interessate a cosa succederà nel principale sindacato italiano.Il nodo del congresso può essere così riassunto: dopo l'accordo separato sul sistema contrattuale e nel pieno della più grave crisi economica degli ultimi decenni quali sono il programma, l'iniziativa di un sindacato che non si rassegna ad accomodarsi all'esistente? Con l'accordo separato Cisl, Uil, governo e Confindustria stanno tentando di stabilire un nuovo regime di collaborazione sindacale che dà per scontato che l'eguaglianza dei diritti dei salari e delle garanzie sociali debba essere progressivamente abbandonata in nome di una competitività attenuata dall'assistenza e dalla sussidiarietà. L'aggravarsi degli effetti sociali della crisi, invece che spingere verso una riforma profonda delle politiche economiche, sta portando a una riaffermazione brutale degli stessi meccanismi che l'hanno generata. Si mandano messaggi tranquillizzanti sulla ripresa perché si vuole ricominciare, come prima, peggio di prima, a speculare sul lavoro e sui diritti. Così il nuovo slogan vincente - legare ancor di più il salario alla produttività - propone in realtà una brutale selezione sociale nel mondo del lavoro. Si daranno soldi e diritti solo a quella parte del mondo del lavoro che si salverà nella guerra della competizione, mentre per tutti gli altri ci sarà sempre meno. La frantumazione sociale e la precarietà, la guerra tra i poveri, le gabbie salariali, l'aziendalismo, sono tutte conseguenze e aspetti della stessa scelta di fondo: mantenere in piedi l'economia liberista anche quando questa non è più in grado di mantenere la promessa di alti ritmi di sviluppo. Cisl e Uil, al di là della propaganda, sono rassegnate al fatto che il sindacato non possa più modificare rapporti di forza e scelte di fondo, e quindi possa solo adattarsi ad amministrare la frantumazione sociale. Da qui la rinuncia a difendere il contratto nazionale e la scelta non tanto a favore della contrattazione aziendale, ma del salario di merito e aziendalistico. Il progetto del governo, sulla distribuzione delle azioni al posto dei salari, suggella questo disegno. Esso non c'entra nulla con la partecipazione e la democrazia industriale. Da quando in qua i piccoli azionisti hanno contato qualcosa nelle grandi imprese? Il progetto in realtà attiene ad un'altra scelta, quella di addossare ancor di più ai lavoratori i rischi del mercato dell'impresa. Si chiede ai lavoratori prima di rinunciare al salario del contratto nazionale in nome del salario di produttività, poi di sostituire quest'ultimo con le azioni. Si chiede ai lavoratori, semplicemente, di rinunciare al salario certo e di essere ancor di più disponibili a rischiare la propria condizione sociale per la competitività nell'impresa. Mentre l'intervento pubblico ha salvato la grande finanza, mentre per i ricchi ci sono stati interventi di stampo socialista, per i lavoratori e per i poveri c'è, ancor più di prima, il rischio di mercato. Si taglia il salario, si chiudono le fabbriche, si licenziano i precari pubblici e privati, si prepara una nuova aggressione alle pensioni, alla sanità, a tutto ciò che resta di pubblico.La Cgil con il suo no alla controriforma del sistema contrattuale ha dimostrato di non voler accettare tutto questo. Ma ora si trova di fronte a un bivio. Da un lato le blandizie e le minacce della Confindustria, dell'opposizione moderata, degli altri sindacati e naturalmente del governo, che le chiedono di rientrare. Dall'altro c'è la via, che può essere anche dura e solitaria, di ricostruzione dei rapporti di forza, per imporre una svolta reale sul piano delle politiche economico-sociali. Ogni passaggio della vita sindacale di queste settimane presenta questo bivio. Dall'azienda che licenzia, al contratto di categoria, alla scuola. Ovunque si è di fronte alla stessa alternativa: subire l'esistente contrattando al meglio le indennità, o lottare a fondo per cambiare le cose. Le lotte nelle fabbriche, il successo dell'Innse tra queste, la rivolta dei precari nella scuola, mostrano che c'è una disponibilità diffusa nel mondo del lavoro a non rassegnarsi. Ma ci sono anche, all'opposto, un'ideologia e una pratica che invece incoraggiano alla rassegnazione del "si salvi chi può". Il congresso della Cgil sta qua dentro, nelle lotte, nei conflitti sui contratti, nella rottura dell'unità sindacale, nella crisi economica che dura e che continua a far danni. La reazione automatica del gruppo dirigente, di fronte a questa situazione, è quella di proporre un congresso senza alternative, unitario si dice nel linguaggio sindacale. La proposta è sostenuta da argomentazioni di apparente buon senso: di fronte a tanti conflitti, non dividiamoci tra noi. Il fatto è che però questo bivio tra accettazione e rassegnazione esiste comunque e, anche se si tenta di aggirarlo con giochi dialettici, si presenta davanti alle scelte quotidiane del sindacato. Per questo il congresso della Cgil non può saltare un confronto vero sulle scelte da compiere. Dopo 15 anni di concertazione, con i salari più bassi d'Europa e la prospettiva che scendano ancora, la Cgil deve scegliere se accettare il meccanismo che ha di fronte oppure provare intelligentemente e radicalmente a rovesciarlo. La seconda ipotesi significa rinnovare profondamente il sindacato e la sua piattaforma, ricostruire partecipazione e democrazia, fare del conflitto non l'estrema ratio, ma la cultura e la pratica fondamentale dell'organizzazione.In conclusione, il no della Cgil alla controriforma del sistema contrattuale non deve essere vissuto come una parentesi o un incidente, ma come la scelta costituente di un nuovo modello di sindacato confederale. Se su questo ci sono opinioni diverse, è un fatto di democrazia che esse non siano sequestrate in confuse mediazioni interne ai gruppi dirigenti, ma vengano presentate con rigore e chiarezza agli iscritti e ai lavoratori. Un congresso della Cgil su posizioni diverse non solo non fa scandalo, ma è un contributo alla democrazia e alla partecipazione. Delle quali c'è infinito bisogno nell'Italia di oggi.
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