di Dino Greco - direttore di Liberazione
Nel suo lucido e non meno drammatico libro intitolato "Il lavoro non è una merce", Luciano Gallino, due anni fa, scriveva che «nell'oceano del lavoro, la tempesta deriva dall'aver messo in competizione tra loro, deliberatamente (il corsivo è mio), il mezzo miliardo di lavoratori del mondo che hanno goduto per alcuni decenni buoni salari e condizioni di lavoro, con un miliardo e mezzo di nuovi salariati che lavorano in condizioni orrende con salari miserandi». Oggi possiamo dire che questa concorrenza vigliacca e spietata è stata pienamente messa a profitto dal capitale nei "punti alti dello sviluppo", dove il quadro dei diritti individuali e collettivi, il sistema di protezione sociale e il diritto del lavoro sembravano costituire uno zoccolo sufficientemente solido da potersi considerare, una volta per tutte, acquisito. Quello che quotidianamente si palesa sotto i nostri occhi è che nulla è più certo e tutto è in discussione. Ed è proprio la grande impresa a rendersi protagonista della più radicale regressione dei rapporti sociali. Si pensi alla Fiat, che prende in ostaggio i lavoratori di tutti i propri stabilimenti per ottenere dallo Stato più risorse di quante ne abbia sin qui munte. O che dispone il fermo della produzione a Termini Imerese (già condannata alla chiusura), fintanto che i lavoratori della Delivery Email, cui è stata revocata la commessa, non cessino le azioni di protesta. Si pensi all'Alcoa, multinazionale dell'alluminio fra le prime tre del mondo, che decide di chiudere gli impianti di Portovesne e di Fusina e di mandare a spasso duemila lavoratori se non potrà lucrare ulteriori sconti sulle già vantaggiose tariffe energetiche. Si pensi alla Novartis, colosso farmaceutico mondiale, che non esita a disfarsi (anziché riassorbire in organico) 24 dei suoi dipendenti, malgrado abbia realizzato lo scorso anno profitti per un miliardo di euro vendendo a vagonate i vaccini antipandemia. Si pensi alle migliaia di lavoratori truffati e abbandonati da Eutelia e Phonemedia, entrambe leader nell'erogazione di servizi di telemarketing e telecomunicazioni. Si pensi, ancora, al dilagare di forme di lavoro schiavistico nelle campagne meridionali e al proliferare, un po' ovunque, di ogni sorta di lavoro precario, sottoretribuito, sottocontribuito, grigio e nero. E si pensi che questa non è altro che la punta di un iceberg, perchè la mappa dei soprusi, delle grandi e piccole infamie subiti da lavoratori e lavoratrici deve essere quotidianamente aggiornata.
A chi ancora provasse, ingenuamente o per dolo, a spiegare che questa è la modernità post-fordista alla quale non rimane che adattarsi, magari attenuandone l'impatto con qualche palliativo, occorrerà tornare a rispondere che no, non vi è nulla di oggettivo in questo stato di cose. E che esso è il risultato della devastante unilateralità con cui il modo di produzione capitalistico si è imposto - senza contrappesi e alternative - sull'intero pianeta. Da noi, va riconosciuto, con quel tanto di protervia stracciona che la borghesia usuraria italiana ha attinto dalla propria storia peggiore, esaltata da una deriva politica che ne ha favorito lo strapotere e i vizi. Oggi, del resto, nessuno si azzarda più ad evocare la "responsabilità sociale dell'impresa". Quella riposa inerte nell'articolo 41 della Costituzione. Provò ad inverarne il contenuto soltanto un certo Adriano Olivetti, molti decenni fa. Nella triste parabola della sua azienda vive - direbbe il filosofo - la nemesi del capitalismo italiano. Ancora Luciano Gallino commentava, sconfortato, che «dire che la politica dell'ultimo decennio ha drammaticamente sottovalutato la condizione del lavoro significa tenersi molto al di sotto delle righe». Si può aggiungere che lungo quel piano inclinato si è in realtà cominciato a ruzzolare molto prima. E che il motore delle stesse organizzazioni sindacali gira da tempo, quando gira, ad un cilindro solo. Ora che la corsa ha preso velocità sembra non esservi più freno.
Da domani, il Prc, nella sua assemblea nazionale, proverà a tirare almeno qualche filo dell'ingarbugliata matassa.
Nel suo lucido e non meno drammatico libro intitolato "Il lavoro non è una merce", Luciano Gallino, due anni fa, scriveva che «nell'oceano del lavoro, la tempesta deriva dall'aver messo in competizione tra loro, deliberatamente (il corsivo è mio), il mezzo miliardo di lavoratori del mondo che hanno goduto per alcuni decenni buoni salari e condizioni di lavoro, con un miliardo e mezzo di nuovi salariati che lavorano in condizioni orrende con salari miserandi». Oggi possiamo dire che questa concorrenza vigliacca e spietata è stata pienamente messa a profitto dal capitale nei "punti alti dello sviluppo", dove il quadro dei diritti individuali e collettivi, il sistema di protezione sociale e il diritto del lavoro sembravano costituire uno zoccolo sufficientemente solido da potersi considerare, una volta per tutte, acquisito. Quello che quotidianamente si palesa sotto i nostri occhi è che nulla è più certo e tutto è in discussione. Ed è proprio la grande impresa a rendersi protagonista della più radicale regressione dei rapporti sociali. Si pensi alla Fiat, che prende in ostaggio i lavoratori di tutti i propri stabilimenti per ottenere dallo Stato più risorse di quante ne abbia sin qui munte. O che dispone il fermo della produzione a Termini Imerese (già condannata alla chiusura), fintanto che i lavoratori della Delivery Email, cui è stata revocata la commessa, non cessino le azioni di protesta. Si pensi all'Alcoa, multinazionale dell'alluminio fra le prime tre del mondo, che decide di chiudere gli impianti di Portovesne e di Fusina e di mandare a spasso duemila lavoratori se non potrà lucrare ulteriori sconti sulle già vantaggiose tariffe energetiche. Si pensi alla Novartis, colosso farmaceutico mondiale, che non esita a disfarsi (anziché riassorbire in organico) 24 dei suoi dipendenti, malgrado abbia realizzato lo scorso anno profitti per un miliardo di euro vendendo a vagonate i vaccini antipandemia. Si pensi alle migliaia di lavoratori truffati e abbandonati da Eutelia e Phonemedia, entrambe leader nell'erogazione di servizi di telemarketing e telecomunicazioni. Si pensi, ancora, al dilagare di forme di lavoro schiavistico nelle campagne meridionali e al proliferare, un po' ovunque, di ogni sorta di lavoro precario, sottoretribuito, sottocontribuito, grigio e nero. E si pensi che questa non è altro che la punta di un iceberg, perchè la mappa dei soprusi, delle grandi e piccole infamie subiti da lavoratori e lavoratrici deve essere quotidianamente aggiornata.
A chi ancora provasse, ingenuamente o per dolo, a spiegare che questa è la modernità post-fordista alla quale non rimane che adattarsi, magari attenuandone l'impatto con qualche palliativo, occorrerà tornare a rispondere che no, non vi è nulla di oggettivo in questo stato di cose. E che esso è il risultato della devastante unilateralità con cui il modo di produzione capitalistico si è imposto - senza contrappesi e alternative - sull'intero pianeta. Da noi, va riconosciuto, con quel tanto di protervia stracciona che la borghesia usuraria italiana ha attinto dalla propria storia peggiore, esaltata da una deriva politica che ne ha favorito lo strapotere e i vizi. Oggi, del resto, nessuno si azzarda più ad evocare la "responsabilità sociale dell'impresa". Quella riposa inerte nell'articolo 41 della Costituzione. Provò ad inverarne il contenuto soltanto un certo Adriano Olivetti, molti decenni fa. Nella triste parabola della sua azienda vive - direbbe il filosofo - la nemesi del capitalismo italiano. Ancora Luciano Gallino commentava, sconfortato, che «dire che la politica dell'ultimo decennio ha drammaticamente sottovalutato la condizione del lavoro significa tenersi molto al di sotto delle righe». Si può aggiungere che lungo quel piano inclinato si è in realtà cominciato a ruzzolare molto prima. E che il motore delle stesse organizzazioni sindacali gira da tempo, quando gira, ad un cilindro solo. Ora che la corsa ha preso velocità sembra non esservi più freno.
Da domani, il Prc, nella sua assemblea nazionale, proverà a tirare almeno qualche filo dell'ingarbugliata matassa.
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