di Stefano Galieni, responsabile Immigrazione Prc
I 12 articoli delle “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” varate pochi giorni fa dal nuovo governo, rappresentano da un lato l’ennesimo salto in avanti per quella che Bauman chiama “Fabbrica della paura”, dall’altra si muovono in terribile perfetta continuità legislativa e culturale con quello che accade nel paese da almeno due anni, ma le cui radici vengono da molto lontano. Sono il segno di una sconfitta, non solo politica e di una mutazione antropologica lenta e apparentemente irreversibile: un paese che, in maniera diversa a seconda delle aree geografiche, si scopre ricco e opulento, timoroso di perdere piccoli limitati e precari privilegi e che anche per questo costruisce il modello di un nemico interno, concorrente in una guerra fra poveri, da non includere a pari condizioni, da sfruttare come manodopera a qualsiasi costo.
L’immigrazione è questo, è sempre stata questo nelle varie forme di legislazione che si sono succedute in materia, oggetto e non soggetto, problema e non parte attiva della società, “fenomeno”, a seconda della maggiore o minore spudoratezza, da governare, controllare, reprimere, cacciare, rinchiudere, limitare. Le misure governative, accolte con tiepida critica dalla sedicente opposizione – per alcune norme il PD ha soltanto affermato “lo avevamo detto prima noi” – sono il precipitare dei patti per la sicurezza sottoscritti un anno e mezzo fa sulla spinta di sindaci di diverso segno politico e tradotti in risorse economiche, in poteri discrezionali delle autorità locali, in ordinanze antipoveri emanate da zelanti amministratori, nell’espandersi impunito delle ronde di quartiere – che siano esse padane o di nero vestite poco cambia. Misure che hanno seguito, assecondato e accompagnato una ideologia che è divenuta senso comune, soprattutto nelle aree più disagiate del Paese, risposte propagandistiche, inefficaci nel merito e nel metodo, ma rassicuranti in un contesto incattivito e prigioniero di ben altre insicurezze, risposte facili e draconiane a problemi da affrontare con strumenti migliori di cui gli aspetti repressivi non possono costituire l’asse portante.
Quello che è stato partorito nella nuova era berlusconiana va affrontato per ciò che è: una sommatoria di misure inutili, costose e destinate a provocare effetti negativi nella vita dei cittadini, autoctoni e immigrati.
Bastano alcuni elementi di buon senso per comprendere il baratro in cui questo percorso ci conduce.
1) Rendere reato la clandestinità Ha un duplice effetto: da una parte istituzionalizza l’equazione clandestino = delinquente, concetto ormai culturalmente dominante, dall’altra provocherà un intasamento del lavoro di tribunali e penitenziari. Se venisse applicato alla lettera – anche escludendo quelle categorie lavorative che si vogliono forse regolarizzare, badanti ma non solo – occorrerebbero vaste operazioni di rastrellamento e strutture per rinchiudere centinaia di migliaia di persone (molti minori), migliaia di giudici che invece di occuparsi di robetta come i reati finanziari, le grandi organizzazioni criminali, le violenze da branco, ecc… Ma il popolo si sentirebbe più “sicuro”. Certo, scarseggerebbe forse la manodopera di bassa lega, ma fino ad un certo punto. Tenere braccia pronte a lavorare, in condizioni di totale invisibilità e ricattabilità, renderebbe molto più competitivi certi settori economici. Poco vale il paragone fatto con altri paesi europei dove la pena è amministrativa, più mite e il divieto di reingresso dopo l’espulsione è di 3 e non di 10 anni. Per inciso il reato sarà introdotto con un disegno di legge apposito – e quindi discusso nel silenzioso parlamento – la pena prevista è variabile da 6 mesi a 4 anni.
2) Pene più pesanti. Anche qui si va incontro ad un sentire comune (un reato, anche il più abietto), se commesso da uno straniero – meglio se “clandestino” – è già considerato più grave di eguale delitto commesso da autoctoni. Ora la legge fa propria la logica dei media. Il reato del “clandestino” è punito con l’aggravante della clandestinità, in pratica essere irregolari rende già diversi davanti alla legge. La pena è aumentata di un terzo.
3) Espulsioni. Con queste misure si potrà espellere immediatamente chi ha una condanna ad una pena superiore ai 2 anni (oggi è di 10). In quest’ordine entrano gran parte dei reati minori (anche la vendita di oggetti contraffatti o il commercio abusivo). Tanti i dubbi: a quale grado di giudizio scatta l’espulsione? E’ corretto permettere che una persona, magari condannata per reati gravi non sconti la pena ma ricada sul paese di provenienza da cui potrà ripartire in ogni momento? Quanto e come potranno essere esecutive tali espulsioni visto che capita sovente di persone che restano anni e anni in carcere prima di essere identificate?
4) Cpt. Prima ancora che l’Unione Europea approvi in parlamento una specifica direttiva si porta a 18 mesi il limite massimo di trattenimento nei centri che diventano ora “Centri di identificazione e espulsione”. Anche qui alcuni calcoli: i posti disponibili per ora nei centri sono 2500 e permettono di recludere circa 16 mila persone all’anno. Aumentando i tempi di trattenimento, diminuiscono i posti disponibili e, al di là delle dichiarazioni di propaganda non sarà sufficiente la logica del raddoppio dei centri. Osservatori di diversi orientamenti politici hanno da tempo affermato il fallimento del sistema Cpt, gli stessi agenti di polizia sanno che o una persona viene identificata nei primi giorni successivi al fermo o non lo sarà mai. Con il risultato che – a meno di non appiccicare nazionalità e identità fittizie ai trattenuti – il 60% di chi è preso resterà 18 mesi in gabbia per poi essere rilasciato con un ineseguibile decreto di espulsione. 18 mesi di galera osceni e inutili che deprivano, incattiviscono. Chi ha conosciuto la condizione di alienazione di persone recluse per pochi giorni può immaginare facilmente come i centri diventeranno quotidianamente luoghi di rivolte, sommosse, atti di autolesionismo. Il tutto per svuotare il mare con un cucchiaino ed autocompiacersi di poter dimostrare di aver a che fare con dei “criminali”.
5) Poteri dei sindaci. Ha vinto la “linea Bitonci” dal nome del sindaco di Cittadella, linea sposata dai Cofferati, dai Dominici e dai De Luca in estrema tranquillità. Maggiori poteri sia amministrativi che di polizia: possibilità di sovrintendere ai registri di stato civile (di negare anche la residenza?), può operare per prevenire o “eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Inutile commentare.
6) Affittare casa a “clandestini” sarà considerato reato con sequestro dell’immobile, multa fino a 50 mila euro e pena da 6 mesi a 3 anni. Niente paura le galere non si riempiranno di palazzinari ma dei “regolari” che subaffittano i posti letto, in molte città inavvicinabili anche per studenti e lavoratori di italica stirpe.
7) Rimesse. Solo chi è regolare potrà mandare soldi a casa, i “Money transfer” saranno obbligati a chiedere il permesso di soggiorno e i documenti a chi invia risparmi. Chissà quanti “splendidi traffici in nero” potrà alimentare questa geniale idea.
8) Sono previsti poi tre schemi di decreti legge: il primo (antirumeni) per facilitare gli allontanamenti dei cittadini comunitari poveri e non graditi, il secondo per restringere l’accesso al ricongiungimento familiare ai genitori – se non provvisti di altri figli in grado di sostenerli economicamente – il tutto previo riconoscimento tramite test dna, il terzo, “dedicato” ai richiedenti asilo, vuole introdurre l’obbligo di residenza per il richiedente e il rimpatrio in caso di diniego anche a fronte di una richiesta di appello.
Misure inutili che però trovano il plauso della pubblica opinione che ormai ha individuato il nemico da eliminare. Non c’è certamente un nesso causale fra questi provvedimenti, il raid squadristico del Vigneto o la morte per mancanza di soccorso di un cittadino magrebino nel cpt di Torino, appena inaugurato. Non c’è, ma i due fatti di cronaca, nella loro brutalità, segnano un legame profondo fra nuove norme e humus culturale. Sono norme che giustificano e in qualche maniera contemplano l’idea che la giustizia sia un problema da affrontare in maniera individuale e la morte di una persona “clandestina” non sia poi così importante da far riflettere su un sistema che ha già prodotto tanti lutti. Un giorno, speriamo presto, guarderemo a queste leggi e a questi fatti con disgusto e vergogna, ora si tratta di rimettersi a lavorare, a sporcarsi le mani affinché il razzismo di stato non diventi religione imperitura.