di Dino Greco, direttore di Liberazione
Giuliano Amato ci ha regalato (Corriere della sera del 18 agosto) la più aggiornata versione della perdurante vocazione trasformistica della politica italiana, quella che - abiurato financo il termine di sinistra - ama proporsi con lo stigma sbiaditissimo del riformismo, anch'esso moderato, come se il sostantivo non bastasse a connotarne le tiepide intenzioni.
L'ex ministro degli interni del governo Prodi, responsabile di non aver a suo tempo fatto nulla, dicasi nulla, per cambiare, anche solo parzialmente, quell'abominevole legge sull'immigrazione che porta, accoppiati, i nomi di Bossi e di Fini, oggi constata come "il ricatto delle estreme sia molto forte". Dove le estreme sono, in realtà, due destre, geograficamente connotate, entrambe al governo del Paese. L'una, la Lega, padrona del Nord, genuina interprete del neo-razzismo padano e sintesi estrema dell'egoismo territoriale, e l'altra, embrione nascente di un (improbabile) partito del Sud. E poiché entrambe congiurerebbero per la divisione dell'Italia, ecco che la nuova frontiera di un'alleanza progressista, capace di disarticolare la maggioranza di centrodestra, consisterebbe nella creazione di una grande coalizione italiana, magari sotto l'alto patrocinio del Presidente della Repubblica, capace di sventare ogni proposito secessionista. Questa ennesima sublimazione della lotta politica nel tatticismo, nelle geometrie politiciste della durata di un giorno o di una settimana, trova nel Pd orecchie ricettive. A guardare la sostanza, tutto si riduce nella scelta dei partners a cui rendersi gregari. I contenuti, i programmi, le scelte che dovrebbero qualificare la proposta politica e gli schieramenti ad essa consustanziali, non esistono. La gente non li vede, non perchè è orba, ma perchè non ci sono o, se ci sono, risultano talmente sbiaditi e confusi da rasentare l'evanescenza.
Si consideri la questione delle gabbie salariali. Solo una macroscopica superficialità può scambiare il rilancio fattone dalla Lega per una rodomontata agostana, per un espediente propagandistico escogitato al fine di catturare qualche voto. Le gabbie salariali non sono - come maramaldescamente dice Bossi - le condizioni per "rinunciare alla secessione": le gabbie (per il loro contenuto e per l'inedita modalità con cui la Lega propone siano attuate, attraverso un intervento geograficamente differenziato sull'Irpef) "sono" la secessione.
Sin dall'inizio, con brusche accelerazioni alternate a momentanee ritirate, la Lega "pratica l'obiettivo", per raggiungere lo scopo che è nel suo imprinting originario. Essa ha trasformato una palese contraddizione in un formidabile vantaggio: l'essere un partito nordista, secessionista e, contemporaneamente, essere parte integrante di un governo nazionale.
La Lega fa un uso cinicamente strumentale della propria collocazione border line per esercitare un vero potere di interdizione, di condizionamento, di indirizzo dell'azione di governo, lungo una traiettoria eversiva dell'unità nazionale non meno che dei principi costituzionali. Ma cosa rende possibile questo paradosso della politica? Cosa fa sì che in quelle che un tempo furono le roccaforti operaie, teatro del più duro e maturo conflitto sociale, ora si affermi così estesamente l'egemonia leghista? Quale artifizio cuce insieme interessi sociali così difficili da comporre: quello del padroncino che si arricchisce sfornando a raffica fatture false e quello del suo dipendente a reddito fisso con trattenuta fiscale alla fonte; quello di estesi strati di piccola borghesia urbana e del terziario commerciale campioni dell'evasione e quelli del pensionato che non sa più come tirare avanti? Se per Berlusconi tutto ciò non costituisce alcun problema, essendo in parte egli espressione - come notava Eugenio Scalfari su La Repubblica di domenica - della stessa cultura, rimane da chiedersi come la sinistra abbia eluso (e continui ad eludere) la domanda di fondo che vi è sottesa, e cioè come nell'Italia ove si affermò il più grande partito comunista dell'occidente e che ancora oggi vede la presenza di un forte sindacato confederale, dilaghi fra gli strati popolari la più rozza ideologia interclassista. In ragione della quale l'operaio pensa alla propria marginalità non già come alla conseguenza dei rapporti di produzione dati, ma come ad un fenomeno esogeno, importato dall'esterno, con l'immigrazione, prima meridionale, poi extracomunitaria e quindi con lo Stato usurario che risucchia il frutto del suo lavoro per mantenere una casta sprecona e parassitaria. La propria oggettiva condizione di sfruttato è totalmente rimossa. Riemerge ora, nelle forme possibili, sotto la sferza della crisi. E se ne coglie tutta la fatica dalle risposte, slegate l'una dall'altra, prive di coordinamento, prima sindacale che politico. Ne è protagonista l'operaio che nella disperazione e nella solitudine le prova tutte. Anche salendo in cima ad una gru, arrampicandosi su un silos, o barricandosi dentro il Colosseo. Liberazione ha sostenuto sino in fondo, giorno dopo giorno, la lotta degli operai dell'Innse. Perché era giusta, perché dimostrava che l'interesse generale passava per quegli operai e non per le miserabili speculazioni di un avventuriero e perché rilanciava la consapevolezza, da tempo mortificata, che il conflitto non è un atto di velleitaria testimonianza, consegnato alla sconfitta, ma può portare alla vittoria. Al tempo stesso, quella lotta, quel gesto estremo di ribellione è lo specchio di una crisi di rappresentanza, un sussulto che fatica a trovare un punto di coagulo, malgrado l'impegno della Fiom. Eppure, questa impennata d'orgoglio è bastata ad allarmare il caporione leghista, a fargli materializzare davanti agli occhi il fantasma della lotta di classe: «non è più il tempo di quella roba lì...gli imprenditori sono poveri disgraziati che non ce l'hanno con gli operai...vogliono anche loro salvare le fabbriche». Bossi teme la riconquista di una coscienza di sé da parte dei lavoratori come la peggiore sciagura perché essa dissolve quella perversa solidarietà verticale (fra padrone e operaio) sulla quale la Lega ha costruito le sue fortune politiche. Il fatto è che non basteranno né dieci né cento Innse se quelle pur generose lotte rimarranno orfane di un progetto prima sindacale e poi politico unificanti.
Il centrodestra ha costruito insieme a Confindustria e ad un pezzo del sindacato confederale una linea chiara ed un blocco sociale che la sostiene: massima flessibilità contrattuale, impoverimento e disarticolazione del contratto nazionale attraverso un micidiale dispositivo derogatorio, contenimento coatto delle retribuzioni in virtù di un sistema di relazioni industriali che funziona come una camicia di forza e trasforma il lavoro umano, del tutto deprivato di qualsiasi soggettività, in un docile strumento del comando d'impresa. Con un simile armamentario, destinato a peggiorare, dentro la crisi, le condizioni di reddito e di vita di milioni di persone, non si fronteggia certo l'offensiva della Lega, né quella più sofisticata, ma di analogo significato, di Sacconi e compagnia.
L'affannosa rincorsa degli attori dello sciagurato patto di gennaio ("detassiamo tutto il salario frutto della contrattazione decentrata") non è che la patetica e fraudolenta confessione dell'incapacità di garantire un sostegno reale ai salari. Patetica: perché il secondo livello negoziale, composto - di per sé - di salario variabile e perciò aleatorio, è appannaggio di una quota davvero modesta di lavoratori; fraudolenta: perché ricorre alla fiscalità generale per non mettere in discussione la quota di reddito che va ai profitti e alle rendite. Su questa strada, sarà Sacconi, inesorabilmente, a raccogliere i frutti. Aggiungete il fatto che, con la fine di agosto, saranno molte le aziende - in particolare quelle di piccole dimensioni, che costituiscono l'ossatura del nostro apparato industriale - a non riaprire. La rete di protezione offerta dal vigente sistema di ammortizzatori sociali è talmente esile e scarnificata da ridurre in povertà milioni di persone che già raschiavano l'osso. Viene così al pettine l'altro nodo di una fallimentare politica sociale, che ha la sua origine non troppo remota nella rinuncia del governo Prodi e del sindacato (questa volta tutto intero) di investire su un'autentica riforma del welfare.
Il pessimo stato delle cose presenti chiama direttamente in causa la Cgil, che sulla linea del traguardo e sotto la pressione di metalmeccanici e pubblici seppe smarcarsi, scongiurando in extremis una capitolazione dalle conseguenze devastanti. Senza tuttavia rendersi capace di una revisione di fondo della linea che l'aveva portata sin nel collo dell'imbuto. Oggi, di fronte alla concentrica pressione che grava su di essa, la Cgil somiglia all'asino di Buridano: in perfetto stallo, incapace di scegliere fra i due mucchi di fieno, vale a dire fra le due vere ipotesi che le si presentano: rientrare nei ranghi e completare la propria mutazione subalterna, oppure svoltare radicalmente e ricostruirsi come sindacato che attinge alla democrazia come sua fondamentale risorsa. E capace di ripensare un modello contrattuale e di relazioni industriali che faccia della redistribuzione del reddito dai profitti ai salari la propria bussola: un contratto nazionale a cui si riconosca (e non si inibisca!) la facoltà di aumentare il valore reale delle retribuzioni, una contrattazione decentrata svincolata dalla redditività di impresa, un meccanismo automatico di indicizzazione dei salari al costo della vita, l'eliminazione del drenaggio fiscale. E, infine, ma non da ultimo, l'introduzione di una tassa di scopo pluriennale per finanziare i contratti di solidarietà ed il sostegno al reddito dei disoccupati. E' questo il primo indispensabile passo per riconferire al lavoro quella posizione di variabile indipendente di cui è stato espropriato. Se il lavoro non attribuisce a se stesso questa dignità, non c'è possibilità che gli venga riconosciuta dall'esterno: tanto meno dagli avversari.
Ecco una linea chiara, comprensibile, la sola capace di concorrere con la Lega e, contemporaneamente, opporsi all'altrimenti inesorabile processo di frantumazione sociale.
Giuliano Amato ci ha regalato (Corriere della sera del 18 agosto) la più aggiornata versione della perdurante vocazione trasformistica della politica italiana, quella che - abiurato financo il termine di sinistra - ama proporsi con lo stigma sbiaditissimo del riformismo, anch'esso moderato, come se il sostantivo non bastasse a connotarne le tiepide intenzioni.
L'ex ministro degli interni del governo Prodi, responsabile di non aver a suo tempo fatto nulla, dicasi nulla, per cambiare, anche solo parzialmente, quell'abominevole legge sull'immigrazione che porta, accoppiati, i nomi di Bossi e di Fini, oggi constata come "il ricatto delle estreme sia molto forte". Dove le estreme sono, in realtà, due destre, geograficamente connotate, entrambe al governo del Paese. L'una, la Lega, padrona del Nord, genuina interprete del neo-razzismo padano e sintesi estrema dell'egoismo territoriale, e l'altra, embrione nascente di un (improbabile) partito del Sud. E poiché entrambe congiurerebbero per la divisione dell'Italia, ecco che la nuova frontiera di un'alleanza progressista, capace di disarticolare la maggioranza di centrodestra, consisterebbe nella creazione di una grande coalizione italiana, magari sotto l'alto patrocinio del Presidente della Repubblica, capace di sventare ogni proposito secessionista. Questa ennesima sublimazione della lotta politica nel tatticismo, nelle geometrie politiciste della durata di un giorno o di una settimana, trova nel Pd orecchie ricettive. A guardare la sostanza, tutto si riduce nella scelta dei partners a cui rendersi gregari. I contenuti, i programmi, le scelte che dovrebbero qualificare la proposta politica e gli schieramenti ad essa consustanziali, non esistono. La gente non li vede, non perchè è orba, ma perchè non ci sono o, se ci sono, risultano talmente sbiaditi e confusi da rasentare l'evanescenza.
Si consideri la questione delle gabbie salariali. Solo una macroscopica superficialità può scambiare il rilancio fattone dalla Lega per una rodomontata agostana, per un espediente propagandistico escogitato al fine di catturare qualche voto. Le gabbie salariali non sono - come maramaldescamente dice Bossi - le condizioni per "rinunciare alla secessione": le gabbie (per il loro contenuto e per l'inedita modalità con cui la Lega propone siano attuate, attraverso un intervento geograficamente differenziato sull'Irpef) "sono" la secessione.
Sin dall'inizio, con brusche accelerazioni alternate a momentanee ritirate, la Lega "pratica l'obiettivo", per raggiungere lo scopo che è nel suo imprinting originario. Essa ha trasformato una palese contraddizione in un formidabile vantaggio: l'essere un partito nordista, secessionista e, contemporaneamente, essere parte integrante di un governo nazionale.
La Lega fa un uso cinicamente strumentale della propria collocazione border line per esercitare un vero potere di interdizione, di condizionamento, di indirizzo dell'azione di governo, lungo una traiettoria eversiva dell'unità nazionale non meno che dei principi costituzionali. Ma cosa rende possibile questo paradosso della politica? Cosa fa sì che in quelle che un tempo furono le roccaforti operaie, teatro del più duro e maturo conflitto sociale, ora si affermi così estesamente l'egemonia leghista? Quale artifizio cuce insieme interessi sociali così difficili da comporre: quello del padroncino che si arricchisce sfornando a raffica fatture false e quello del suo dipendente a reddito fisso con trattenuta fiscale alla fonte; quello di estesi strati di piccola borghesia urbana e del terziario commerciale campioni dell'evasione e quelli del pensionato che non sa più come tirare avanti? Se per Berlusconi tutto ciò non costituisce alcun problema, essendo in parte egli espressione - come notava Eugenio Scalfari su La Repubblica di domenica - della stessa cultura, rimane da chiedersi come la sinistra abbia eluso (e continui ad eludere) la domanda di fondo che vi è sottesa, e cioè come nell'Italia ove si affermò il più grande partito comunista dell'occidente e che ancora oggi vede la presenza di un forte sindacato confederale, dilaghi fra gli strati popolari la più rozza ideologia interclassista. In ragione della quale l'operaio pensa alla propria marginalità non già come alla conseguenza dei rapporti di produzione dati, ma come ad un fenomeno esogeno, importato dall'esterno, con l'immigrazione, prima meridionale, poi extracomunitaria e quindi con lo Stato usurario che risucchia il frutto del suo lavoro per mantenere una casta sprecona e parassitaria. La propria oggettiva condizione di sfruttato è totalmente rimossa. Riemerge ora, nelle forme possibili, sotto la sferza della crisi. E se ne coglie tutta la fatica dalle risposte, slegate l'una dall'altra, prive di coordinamento, prima sindacale che politico. Ne è protagonista l'operaio che nella disperazione e nella solitudine le prova tutte. Anche salendo in cima ad una gru, arrampicandosi su un silos, o barricandosi dentro il Colosseo. Liberazione ha sostenuto sino in fondo, giorno dopo giorno, la lotta degli operai dell'Innse. Perché era giusta, perché dimostrava che l'interesse generale passava per quegli operai e non per le miserabili speculazioni di un avventuriero e perché rilanciava la consapevolezza, da tempo mortificata, che il conflitto non è un atto di velleitaria testimonianza, consegnato alla sconfitta, ma può portare alla vittoria. Al tempo stesso, quella lotta, quel gesto estremo di ribellione è lo specchio di una crisi di rappresentanza, un sussulto che fatica a trovare un punto di coagulo, malgrado l'impegno della Fiom. Eppure, questa impennata d'orgoglio è bastata ad allarmare il caporione leghista, a fargli materializzare davanti agli occhi il fantasma della lotta di classe: «non è più il tempo di quella roba lì...gli imprenditori sono poveri disgraziati che non ce l'hanno con gli operai...vogliono anche loro salvare le fabbriche». Bossi teme la riconquista di una coscienza di sé da parte dei lavoratori come la peggiore sciagura perché essa dissolve quella perversa solidarietà verticale (fra padrone e operaio) sulla quale la Lega ha costruito le sue fortune politiche. Il fatto è che non basteranno né dieci né cento Innse se quelle pur generose lotte rimarranno orfane di un progetto prima sindacale e poi politico unificanti.
Il centrodestra ha costruito insieme a Confindustria e ad un pezzo del sindacato confederale una linea chiara ed un blocco sociale che la sostiene: massima flessibilità contrattuale, impoverimento e disarticolazione del contratto nazionale attraverso un micidiale dispositivo derogatorio, contenimento coatto delle retribuzioni in virtù di un sistema di relazioni industriali che funziona come una camicia di forza e trasforma il lavoro umano, del tutto deprivato di qualsiasi soggettività, in un docile strumento del comando d'impresa. Con un simile armamentario, destinato a peggiorare, dentro la crisi, le condizioni di reddito e di vita di milioni di persone, non si fronteggia certo l'offensiva della Lega, né quella più sofisticata, ma di analogo significato, di Sacconi e compagnia.
L'affannosa rincorsa degli attori dello sciagurato patto di gennaio ("detassiamo tutto il salario frutto della contrattazione decentrata") non è che la patetica e fraudolenta confessione dell'incapacità di garantire un sostegno reale ai salari. Patetica: perché il secondo livello negoziale, composto - di per sé - di salario variabile e perciò aleatorio, è appannaggio di una quota davvero modesta di lavoratori; fraudolenta: perché ricorre alla fiscalità generale per non mettere in discussione la quota di reddito che va ai profitti e alle rendite. Su questa strada, sarà Sacconi, inesorabilmente, a raccogliere i frutti. Aggiungete il fatto che, con la fine di agosto, saranno molte le aziende - in particolare quelle di piccole dimensioni, che costituiscono l'ossatura del nostro apparato industriale - a non riaprire. La rete di protezione offerta dal vigente sistema di ammortizzatori sociali è talmente esile e scarnificata da ridurre in povertà milioni di persone che già raschiavano l'osso. Viene così al pettine l'altro nodo di una fallimentare politica sociale, che ha la sua origine non troppo remota nella rinuncia del governo Prodi e del sindacato (questa volta tutto intero) di investire su un'autentica riforma del welfare.
Il pessimo stato delle cose presenti chiama direttamente in causa la Cgil, che sulla linea del traguardo e sotto la pressione di metalmeccanici e pubblici seppe smarcarsi, scongiurando in extremis una capitolazione dalle conseguenze devastanti. Senza tuttavia rendersi capace di una revisione di fondo della linea che l'aveva portata sin nel collo dell'imbuto. Oggi, di fronte alla concentrica pressione che grava su di essa, la Cgil somiglia all'asino di Buridano: in perfetto stallo, incapace di scegliere fra i due mucchi di fieno, vale a dire fra le due vere ipotesi che le si presentano: rientrare nei ranghi e completare la propria mutazione subalterna, oppure svoltare radicalmente e ricostruirsi come sindacato che attinge alla democrazia come sua fondamentale risorsa. E capace di ripensare un modello contrattuale e di relazioni industriali che faccia della redistribuzione del reddito dai profitti ai salari la propria bussola: un contratto nazionale a cui si riconosca (e non si inibisca!) la facoltà di aumentare il valore reale delle retribuzioni, una contrattazione decentrata svincolata dalla redditività di impresa, un meccanismo automatico di indicizzazione dei salari al costo della vita, l'eliminazione del drenaggio fiscale. E, infine, ma non da ultimo, l'introduzione di una tassa di scopo pluriennale per finanziare i contratti di solidarietà ed il sostegno al reddito dei disoccupati. E' questo il primo indispensabile passo per riconferire al lavoro quella posizione di variabile indipendente di cui è stato espropriato. Se il lavoro non attribuisce a se stesso questa dignità, non c'è possibilità che gli venga riconosciuta dall'esterno: tanto meno dagli avversari.
Ecco una linea chiara, comprensibile, la sola capace di concorrere con la Lega e, contemporaneamente, opporsi all'altrimenti inesorabile processo di frantumazione sociale.
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