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20 febbraio 2009

Il lavoro NON HA NAZIONE

Storie. Khedidja, la delegata che rappresenta gli italiani

È algerina ma si sente più italiana di Bossi. Marito della Guinea e tre figli «mulatti» che parlano la nostra lingua senza inflessioni. Khedidja Sayah lavora alla Tecnogas di Reggio Emilia, è rispettata da tutti perché si batte per l'unità degli operai

Khedidja Sayah è algerina e da 11 anni vive in Italia. Da 5 anni è operaia alla catena di montaggio della Tecnogas - il padrone è lo stesso Antonio Merloni che dalle Marche ha esportato la crisi in tutti gli stabilimenti in suo possesso - di Gualtieri, provincia di Reggio Emilia, meglio dire Bassa Reggiana che in realtà è a nord del capoluogo, verso la Lombardia. È sposata e ha tre figli «mulatti», il suo compagno è della Guinea e anche lui «fa l'operaio metalmeccanico».

Da 3 anni Khedidja è delegata sindacale, tessera Fiom.

Nell'intervento pronunciato con passione dal palco di piazza San Giovanni, durante la manifestazione nazionale dei lavoratori metalmeccanici e pubblici, aveva chiesto: «Bossi mi vuole togliere il visto di soggiorno e rispedirmi a casa? Va bene, lo accetto. Ma a voi italiani chiedo di togliere a Bossi il permesso di soggiorno in Italia, visto che attacca la Costituzione che è di tutti». Ci siamo fatti raccontare il suo lavoro, il rapporto con le operaie e gli operai, sia «italiani» che immigrati, che si rivolgono a lei dopo averla votata: da lei si sentono pienamente rappresentati, in questa crisi che alla Tecnogas è esplosa ben prima della bolla finanziaria.

«Lavoro alla catena di montaggio, assembliamo cucine e forni. Alla cadenza del lavoro fissata corrisponde un certo numero di elettrodomestici al giorno, variabile a seconda della complessità e delle dimensioni del prodotto. Da tempo, però, in Tecnogas si lavora poco o niente e le settimane di cassa integrazione diventano mesi. Lo sai che non ricordo da quanto tempo non ricevo una busta paga intera? Sono stata anche in cassa a zero ore, e lo sai che quando resti per un mese intero a casa arrivi a prendere solo 680 euro? Pensa che, prima di quest'ultima crisi, da noi potevamo guadagnare anche 1.400 euro, grazie al premio di risultato strappato con la lotta. Ora, dopo la richiesta di insolvenza e l'utilizzo della legge Marzano per la Antonio Merloni, è tutto congelato dalla procedura: premio, trattamento di fine rapporto, ferie».

La storia dell'Antonio Merloni è stata più volte raccontata sul manifesto, con le parole dei delegati e delle delegate di Fabriano, in provincia di Ancona. Alla Tecnogas «i guai seri sono iniziati 4 anni fa, i primi responsabili sono i manager che con una pessima organizzazione del lavoro hanno penalizzato il gruppo. Ma le responsabilità vanno cercate anche altrove, in tutte le direzioni. Nelle Marche crescevano gli esuberi, ma si sa, quella è la terra in cui i Merloni sono padri-padroni e in più, laggiù la Fiom non ha la maggioranza come qui a Reggio. La crisi non è mai stata affrontata con serietà, hanno sempre cercato di proteggere il territorio di riferimento e i figli. Così si è fatto male a tutti, e c'è qualcosa che non va se il padrone decide di mettere 190 milioni di tasca sua, soldi buttati in un pozzo senza fondo».

Khedidja è stata eletta delegata dal voto di «operai e operaie immigrati, ma soprattutto dagli italiani perché alla Tecnogas gli stranieri sono soltanto un centinaio su una forza di lavoro totale di 500 persone. Sono molto orgogliosa per questo e sono riconoscente al mio delegato storico che mi ha insegnato tutto, mi ha fatto crescere. Da noi la Fiom ha la maggioranza, del resto siamo a Reggio Emilia. Questo è un territorio speciale, e la nostra è una Cgil speciale. Da gennaio sono in distacco sindacale con legge 300 dello Statuto dei lavoratori. Ebbene, io come tutti gli altri compagni sindacalisti o delegati in distacco giriamo fabbrica per fabbrica dal mattino alla sera, mica stiamo in sede dietro la scrivania a scaldare le sedie».

È soltanto da un mese che Khedidja ha lasciato la sua fabbrica e già «mi mancano i compagni, mi manca il lavoro. Ma non ho tempo per le nostalgie, passo i giorni in strada a difendere i lavoratori. Provo a portare ovunque l'esperienza che abbiamo costruito alla Tecnogas. A Roma, a San Giovanni ho citato Vittorio Foa che diceva «dobbiamo essere d'esempio» ma non ho avuto il tempo per spiegarmi: volevo dire che noi alla Tecnogas lo siamo stati d'esempio, perché abbiamo costruito una rete forte basata sulla solidarietà, al di là del genere, della razza, del colore della pelle. Noi abbiamo due strade davanti, o siamo protagonisti del nostro futuro, almeno ci proviamo, altrimenti fai lo struzzo, metti la testa sotto la sabbia e subisci tutto. E' questo che vado predicando, tra una trattativa e l'altra».

Torniamo alla Tecnogas con la delegata algerina biturbo. Come si rapportano a te le operaie e gli operai italiani?

«Con me non hanno problemi, si parla di tutto. Anche di stranieri, di 'clandestini', poi magari qualcuno mi dice imbarazzato: 'Scusa, avevamo dimenticato che anche tu sei straniera'. Si vede che io faccio dimenticare la mia nazionalità. Io sono aperta al confronto, questa è la mia forma d'integrazione dentro un sindacato che per me vuol dire innanzitutto rappresentanza, senza divisioni di sesso o nazione».

Cos'è che vi tiene uniti, alla Tecnogas, a Reggio?

«I diritti che devono essere uguali per tutti. La dignità del lavoro. La Costituzione italiana che sento anche mia e che oggi qualcuno vuole stracciare insieme al mio permesso di soggiorno. Il più piccolo dei miei figli è nato in Italia, gli altri due sono arrivati qui che avevano rispettivamente 1 e 2 anni. Parlano italiano, senza accenti», racconta Khedidja con una leggera inflessione emiliana. «E ora, signor Bossi, che dovrei fare? Tornare là da dove sono venuta? Lo sai che ogni volta che ho bisogno di un documento di uno dei miei due figli nati fuori sono costretta a fare un viaggio per andarli a prendere? Con la carta di soggiorno potrei avere la cittadinanza italiana, ma ci vorrebbero almeno 6 o 7 anni».

Khedidja è molto preoccupata per la strada che ha imboccato il paese per il quale produce ricchezza, per certe leggi e certe parole di Bossi e dei suoi «che producono odio, e l'odio genera insicurezza e viceversa. Io chiamo all'amore non all'odio: amo più l'Italia io o il signor Bossi? Amo questo paese, e sono contro chi lo vuole dividere».

In fabbrica, nella Fiom, sei riconosciuta e apprezzata. Sei una figura positiva. Cosa ti succede quando varchi i cancelli ed entri nella società?

«Io sono una specie di Cenerentola adottata da tutti, rispetto tutti e vengo rispettata. Si discute, alla fine ci si incontra. Oh, guarda che siamo a Reggio Emilia», insomma un posto un po' speciale. «Le mie passioni, i miei amori, i miei interessi sono in Italia, questo fa la differenza. Ai migranti dico: guardiamoci allo specchio, abbiamo i capelli bianchi, lavoriamo qui e non siamo più gente di passaggio. Siamo abitanti di questo paese, perciò dobbiamo partecipare, dobbiamo impegnarci». In politica? «Macché, nel sindacato, siamo lavoratori. Non algerini o italiani, lavoratori, e io rappresento i lavoratori. Poi sono impegnata nel coordinamento migranti che abbiamo costruito come Cgil e Fiom. E' nel sindacato il mio impegno, le chiacchiere servono a poco».

Dunque, sarà perché vivi nel Reggiano e la tua integrazione l'hai realizzata, resta il fatto che nella società non trovi muri insormontabili come immigrata.

«Io no, e neanche i miei figli. Qualche volta, quando erano più piccoli mi dicevano che magari un loro compagno li aveva apostrofati: 'Negri!'. Io dicevo loro di non prendersela, 'sono degli stupidi, vedrai che con il passar del tempo capiranno. Ora non ci sono più questi problemi, noi siamo un esempio di tolleranza, da queste parti».

Però monta un clima pesante, in un'Italia che non assomiglia più di tanto a Reggio Emilia...

«Certo, sono molto preoccupata. Innanzitutto per le conseguenze di questa crisi economica così pesante. Atteggiamenti razzisti e leggi sbagliate rischiano di scatenare una guerra tra poveri, soprattutto quando non c'è più lavoro per tutti: il nord contro il sud, i vecchi lavoratori contro i giovani, gli uomini contro le donne, gli italiani contro gli immigrati. Il governo Berlusconi sta giocando con il fuoco, sta generando una situazione pericolosa che a un certo punto non sarà più in grado di governare. Nessuno di noi può sentirsi al sicuro, perciò nessuno di noi deve chiamarsi fuori, o mettere la testa sotto la sabbia. Non saranno certo i militari o le leggi speciali a farci sentire più sicuri, tantomeno a risolvere i problemi provocati dalla crisi».

Questa chiacchierata l'abbiamo fatta durante una pausa mensa, Khedidja ha ritagliato un po' del suo tempo tra un'assemblea e una trattativa nella pausa mensa. La sua pizza è ancora sul tavolo, ormai si è freddata ma questo non le ha tolto il buon umore. La determinazione, questa rappresentante dei lavoratori con un volto che sembra tratto da «La battaglia di Algeri» di Gillo Pontecorvo, di sicuro non rischia di perderla.

Il tuo padrone alla Tecnogas sarà contento di essersi tolto di mezzo una delegata come te, la sfotto.

«Sì, sarà contento ma si sbaglia, perché dovrà pur sempre trattare con il delegato storico, quello che mi ha insegnato il mestiere».

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