di Simone Oggionni, da Liberazione del 22 agosto 2008
«Se l'essere comunista importa responsabilità, l'accetto»: non sappiamo se il giovane compagno catanese abbia mai avuto l'occasione di leggere la trascrizione dell'interrogatorio che Antonio Gramsci subì nel maggio 1928 dal presidente del Tribunale Speciale e, in particolare, questa sua ferma assunzione di responsabilità.
Fa effetto rileggerle oggi, all'indomani di una notizia che rischia di segnare un punto di non ritorno.
Una struttura pubblica (come sono i servizi sociali) motiva la richiesta al Tribunale di Catania di sottrarre alla madre l'affidamento del figlio sedicenne con il fatto che questi è iscritto «ad un gruppo di estremisti», cioè ai Giovani Comunisti del Prc.
La Prima Sezione Civile del Tribunale (e cioè l'organo giurisdizionale di primo grado della Repubblica italiana, non un club privato) accoglie e conferma l'impianto suggerito dai servizi sociali.
Ci sono frasi, all'interno dell'ordinanza, che colpiscono per il disprezzo che non riescono a celare nei confronti dell'attività politica della nostra organizzazione. Come quando si scrive che «pare che il segretario del circolo (di un gruppo di estremisti) abbia provveduto a convincere all'iscrizione e all'attivismo altri ragazzi». «Pare»: come se si stesse rivelando contro ogni logica l'esistenza di una attività illecita di adescamento, come se il fine della iniziativa politica non fosse anche, ovviamente e naturalmente, la crescita del consenso. Oppure, ancora, come quando i luoghi frequentati dal nostro compagno vengono definiti «posti di ritrovo […] dove è diffuso l'uso di sostanze alcoliche e psicotrope». Insomma: i nostri circoli, le nostre sedi, i centri sociali si trasformano - per i servizi sociali e per il Tribunale di Catania - in vere e proprie centrali criminogene.
Il punto è però un altro, e ben più profondo. Se l'ordinanza non venisse revocata, come chiede il legale della madre, saremmo di fronte ad un precedente pericolosissimo, nella misura in cui renderebbe ammissibile (cioè giuridicamente fondata) ogni pretesa che vertesse intorno alla definizione nei termini di «fattispecie di reato» dell'adesione ad un partito comunista.
Una volta accettato il principio per il quale militare o aderire, financo frequentare un partito comunista, costituisce un atteggiamento deprecabile sul piano sociale e un'aggravante sul piano giuridico, che cosa impedisce ad un giudice di condannare - per il suo atteggiamento socialmente deprecabile e giuridicamente inopportuno - un imputato per «militanza comunista»?
E che cosa impedisce al legislatore di espellere dalla legalità - come è stato fatto nei mesi scorsi in Repubblica ceca - la stessa organizzazione giovanile comunista?
La Costituzione italiana, si dirà. Purtroppo non è più sufficiente, come dimostra da un lato un'attività esecutiva segnata (per esempio in materia di sicurezza) dall'autoritarismo e dalla foga repressiva e discriminatoria e, dall'altro, un senso comune diffuso che piega (per esempio nei casi sempre più frequenti di violenza razzista di massa) le garanzie democratiche ad uso e consumo dei valori dominanti.
In Italia sta accadendo qualcosa di molto grave, e basterebbe mettere in fila alcuni fatti di cronaca degli ultimi mesi per capire quanto poco strampalata sia la provocazione agitata da Asor Rosa in ordine ai rischi più che concreti di «fascistizzazione» del quadro politico e sociale italiano.
Si pensi - su piani diversi - alle aggressioni popolari ai campi rom di Napoli e Roma del maggio scorso e alle schedature di massa decise da diverse amministrazioni locali oppure alle dichiarazioni del presidente della Camera Gianfranco Fini sull'omicidio di un giovane veronese ad opera di cinque neonazisti (a suo dire meno grave dell'atto di bruciare alcune bandiere).
Oppure si pensi, ancora, alla re-distribuzione dal basso verso l'alto (attraverso il taglio dell'unica tassa patrimoniale) che falcidia il principio della democrazia economica; allo smantellamento della proprietà pubblica dei diversi fattori della ricchezza sociale (casa, servizi pubblici locali) e della struttura stessa dell'amministrazione statale; alla militarizzazione sistematica del territorio nazionale; al ricorso sempre più accentuato, in un'ottica presidenzialista, ai dispositivi di accentramento del potere esecutivo; all'insofferenza - e su questo il cerchio rischia di chiudersi - nei confronti di una architettura istituzionale costruita intorno all'indipendenza dei poteri dello Stato.
Dentro un quadro così drammatico, oggi «l'essere comunista importa responsabilità». Noi questa responsabilità la sentiamo per intero e, prima ancora, sentiamo il dovere di difendere la nostra comunità politica. Quindi non lasceremo solo il compagno del circolo Tien-an-men. E, insieme a lui, torneremo presto in piazza per contrastare - con i soliti mezzi: la lotta politica, l'intelligenza, la passione - questa drammatica regressione civile, politica e morale.
«Se l'essere comunista importa responsabilità, l'accetto»: non sappiamo se il giovane compagno catanese abbia mai avuto l'occasione di leggere la trascrizione dell'interrogatorio che Antonio Gramsci subì nel maggio 1928 dal presidente del Tribunale Speciale e, in particolare, questa sua ferma assunzione di responsabilità.
Fa effetto rileggerle oggi, all'indomani di una notizia che rischia di segnare un punto di non ritorno.
Una struttura pubblica (come sono i servizi sociali) motiva la richiesta al Tribunale di Catania di sottrarre alla madre l'affidamento del figlio sedicenne con il fatto che questi è iscritto «ad un gruppo di estremisti», cioè ai Giovani Comunisti del Prc.
La Prima Sezione Civile del Tribunale (e cioè l'organo giurisdizionale di primo grado della Repubblica italiana, non un club privato) accoglie e conferma l'impianto suggerito dai servizi sociali.
Ci sono frasi, all'interno dell'ordinanza, che colpiscono per il disprezzo che non riescono a celare nei confronti dell'attività politica della nostra organizzazione. Come quando si scrive che «pare che il segretario del circolo (di un gruppo di estremisti) abbia provveduto a convincere all'iscrizione e all'attivismo altri ragazzi». «Pare»: come se si stesse rivelando contro ogni logica l'esistenza di una attività illecita di adescamento, come se il fine della iniziativa politica non fosse anche, ovviamente e naturalmente, la crescita del consenso. Oppure, ancora, come quando i luoghi frequentati dal nostro compagno vengono definiti «posti di ritrovo […] dove è diffuso l'uso di sostanze alcoliche e psicotrope». Insomma: i nostri circoli, le nostre sedi, i centri sociali si trasformano - per i servizi sociali e per il Tribunale di Catania - in vere e proprie centrali criminogene.
Il punto è però un altro, e ben più profondo. Se l'ordinanza non venisse revocata, come chiede il legale della madre, saremmo di fronte ad un precedente pericolosissimo, nella misura in cui renderebbe ammissibile (cioè giuridicamente fondata) ogni pretesa che vertesse intorno alla definizione nei termini di «fattispecie di reato» dell'adesione ad un partito comunista.
Una volta accettato il principio per il quale militare o aderire, financo frequentare un partito comunista, costituisce un atteggiamento deprecabile sul piano sociale e un'aggravante sul piano giuridico, che cosa impedisce ad un giudice di condannare - per il suo atteggiamento socialmente deprecabile e giuridicamente inopportuno - un imputato per «militanza comunista»?
E che cosa impedisce al legislatore di espellere dalla legalità - come è stato fatto nei mesi scorsi in Repubblica ceca - la stessa organizzazione giovanile comunista?
La Costituzione italiana, si dirà. Purtroppo non è più sufficiente, come dimostra da un lato un'attività esecutiva segnata (per esempio in materia di sicurezza) dall'autoritarismo e dalla foga repressiva e discriminatoria e, dall'altro, un senso comune diffuso che piega (per esempio nei casi sempre più frequenti di violenza razzista di massa) le garanzie democratiche ad uso e consumo dei valori dominanti.
In Italia sta accadendo qualcosa di molto grave, e basterebbe mettere in fila alcuni fatti di cronaca degli ultimi mesi per capire quanto poco strampalata sia la provocazione agitata da Asor Rosa in ordine ai rischi più che concreti di «fascistizzazione» del quadro politico e sociale italiano.
Si pensi - su piani diversi - alle aggressioni popolari ai campi rom di Napoli e Roma del maggio scorso e alle schedature di massa decise da diverse amministrazioni locali oppure alle dichiarazioni del presidente della Camera Gianfranco Fini sull'omicidio di un giovane veronese ad opera di cinque neonazisti (a suo dire meno grave dell'atto di bruciare alcune bandiere).
Oppure si pensi, ancora, alla re-distribuzione dal basso verso l'alto (attraverso il taglio dell'unica tassa patrimoniale) che falcidia il principio della democrazia economica; allo smantellamento della proprietà pubblica dei diversi fattori della ricchezza sociale (casa, servizi pubblici locali) e della struttura stessa dell'amministrazione statale; alla militarizzazione sistematica del territorio nazionale; al ricorso sempre più accentuato, in un'ottica presidenzialista, ai dispositivi di accentramento del potere esecutivo; all'insofferenza - e su questo il cerchio rischia di chiudersi - nei confronti di una architettura istituzionale costruita intorno all'indipendenza dei poteri dello Stato.
Dentro un quadro così drammatico, oggi «l'essere comunista importa responsabilità». Noi questa responsabilità la sentiamo per intero e, prima ancora, sentiamo il dovere di difendere la nostra comunità politica. Quindi non lasceremo solo il compagno del circolo Tien-an-men. E, insieme a lui, torneremo presto in piazza per contrastare - con i soliti mezzi: la lotta politica, l'intelligenza, la passione - questa drammatica regressione civile, politica e morale.
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