di Roberta Fantozzi - Resp. Lavoro Prc
L'accordo separato firmato da governo, Confindustria, Cisl, Uil, Ugl, non è un evento inaspettato preceduto come è stato dalla lunga serie di accordi separati di categoria. Tanto meno lo è dopo l'offensiva lanciata nei giorni scorsi da Confindustria, Cisl e Uil, e le dichiarazioni di Walter Veltroni. Ma è fortissimo il senso dello strappo, per l'accelerazione che si è prodotta, come per la gravità estrema di quanto è accaduto.
Berlusconi cerca di realizzare nuovamente l'obiettivo che segnò il suo governo nel 2002, quando con il Patto per l'Italia puntò ad isolare e marginalizzare la Cgil. Lo vuol fare, oggi come ieri, per realizzare un disegno "costituente" che mira a determinare in senso fortemente regressivo non solo la condizione materiale del mondo del lavoro, ma natura e ruolo dei soggetti sociali e dunque lo statuto della democrazia nel nostro paese. Un disegno persino esibito dalla coincidenza temporale della firma dell'accordo e del primo via libera dato dal parlamento al federalismo. Entrambe scelte "costituenti" che puntano a dividere e frammentare, mettere in contrapposizione i territori come i lavoratori, distruggere i residui elementi universalistici e solidaristici del nostro modello sociale. Entrambe scelte che hanno registrato l'assenza grave dell'opposizione parlamentare.
L'accordo firmato riprende, solo sintetizzandolo, il documento di Confindustria che aveva già visto convergere Cisl e Uil. Il contratto nazionale di lavoro viene svuotato di ogni ruolo: non serve a redistribuire la produttività, non serve nemmeno a difendere salari e stipendi dall'inflazione reale. E' viceversa lo strumento della generalizzata e ulteriore riduzione dei salari, legati ad un'indice dell'inflazione "depurato" dall'aumento dei costi dell'energia importata. La contrattazione aziendale, che riguarda meno del venti per cento delle imprese, consente aumenti salariali solo in relazione alla "produttività" e "redditività" delle imprese, all'aumento dello sfruttamento e della fatica del lavoro, ad ulteriori sgravi fiscali e contributivi per le imprese, che si esige diventino "strutturali, certi, facilmente accessibili". Il contratto nazionale potrà essere derogato solo in peggio, mentre nulle sono le garanzie per la stragrande maggioranza dei lavoratori che non accedono alla contrattazione di secondo livello. Si rimanda ad altra sede la definizione delle "modalità per garantire la tregua sindacale", ma la sostanza resta quella di sanzionare e limitare pesantemente il diritto di sciopero. Viene reiterata la previsione di "ulteriori forme di bilateralità per il funzionamento dei servizi integrativi di Welfare", nodo centrale anche del Libro Verde del ministro Sacconi.
Il sindacato non è più, secondo l'accordo, il rappresentante autonomo degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione di conflitto e contrattazione. E' insieme alle imprese il gestore di servizi, di uno stato sociale che vede ritrarsi ruolo e garanzie pubbliche e viene consegnato a logiche privatistiche, a quegli enti bilaterali in cui si sostanzia il ridisegno neocorporativo dell'insieme delle relazioni sociali. Non è un caso che il governo abbia varato in agosto un taglio micidiale delle risorse per sanità, enti locali, istruzione, lavoro pubblico.
L'accordo separato è destinato ad aggravare la situazione economica e sociale complessiva, perché impoverisce ancora di più i lavoratori, in una crisi che è determinata esattamente dall'acuirsi delle disuguaglianze, da quel "mondo di bassi salari" prodotto da un trentennio di politiche neoliberiste.
La partita non è tuttavia chiusa. Non lo è come non lo fu nel 2002, sebbene sia evidente il quadro peggiore di oggi rispetto a ieri, per la sconfitta della sinistra, per la collocazione del Pd. Non lo è in virtù della tenuta decisiva che la Cgil ha avuto. Non lo è in virtù della disponibilità alla lotta che le lavoratrici e i lavoratori hanno dimostrato, aderendo il 12 dicembre allo sciopero generale della Cgil e dei sindacati di base. Diventa decisiva l'attivazione di una risposta forte nei luoghi di lavoro e nei territori. Una risposta adeguata alla gravità di quanto avvenuto, alla volontà di riscrivere le relazioni sindacali e i rapporti sociali contro la più grande organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori, impoverire e dividere ulteriormente il mondo del lavoro, distruggere ruolo e autonomia del sindacato. Crediamo sia necessaria la costruzione di un nuovo sciopero generale. Crediamo sia obbligatorio il pronunciamento delle lavoratrici e dei lavoratori sull'accordo. Per parte nostra ci saremo. E' in gioco il futuro dei diritti del lavoro e della democrazia.
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L'accordo separato firmato da governo, Confindustria, Cisl, Uil, Ugl, non è un evento inaspettato preceduto come è stato dalla lunga serie di accordi separati di categoria. Tanto meno lo è dopo l'offensiva lanciata nei giorni scorsi da Confindustria, Cisl e Uil, e le dichiarazioni di Walter Veltroni. Ma è fortissimo il senso dello strappo, per l'accelerazione che si è prodotta, come per la gravità estrema di quanto è accaduto.
Berlusconi cerca di realizzare nuovamente l'obiettivo che segnò il suo governo nel 2002, quando con il Patto per l'Italia puntò ad isolare e marginalizzare la Cgil. Lo vuol fare, oggi come ieri, per realizzare un disegno "costituente" che mira a determinare in senso fortemente regressivo non solo la condizione materiale del mondo del lavoro, ma natura e ruolo dei soggetti sociali e dunque lo statuto della democrazia nel nostro paese. Un disegno persino esibito dalla coincidenza temporale della firma dell'accordo e del primo via libera dato dal parlamento al federalismo. Entrambe scelte "costituenti" che puntano a dividere e frammentare, mettere in contrapposizione i territori come i lavoratori, distruggere i residui elementi universalistici e solidaristici del nostro modello sociale. Entrambe scelte che hanno registrato l'assenza grave dell'opposizione parlamentare.
L'accordo firmato riprende, solo sintetizzandolo, il documento di Confindustria che aveva già visto convergere Cisl e Uil. Il contratto nazionale di lavoro viene svuotato di ogni ruolo: non serve a redistribuire la produttività, non serve nemmeno a difendere salari e stipendi dall'inflazione reale. E' viceversa lo strumento della generalizzata e ulteriore riduzione dei salari, legati ad un'indice dell'inflazione "depurato" dall'aumento dei costi dell'energia importata. La contrattazione aziendale, che riguarda meno del venti per cento delle imprese, consente aumenti salariali solo in relazione alla "produttività" e "redditività" delle imprese, all'aumento dello sfruttamento e della fatica del lavoro, ad ulteriori sgravi fiscali e contributivi per le imprese, che si esige diventino "strutturali, certi, facilmente accessibili". Il contratto nazionale potrà essere derogato solo in peggio, mentre nulle sono le garanzie per la stragrande maggioranza dei lavoratori che non accedono alla contrattazione di secondo livello. Si rimanda ad altra sede la definizione delle "modalità per garantire la tregua sindacale", ma la sostanza resta quella di sanzionare e limitare pesantemente il diritto di sciopero. Viene reiterata la previsione di "ulteriori forme di bilateralità per il funzionamento dei servizi integrativi di Welfare", nodo centrale anche del Libro Verde del ministro Sacconi.
Il sindacato non è più, secondo l'accordo, il rappresentante autonomo degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione di conflitto e contrattazione. E' insieme alle imprese il gestore di servizi, di uno stato sociale che vede ritrarsi ruolo e garanzie pubbliche e viene consegnato a logiche privatistiche, a quegli enti bilaterali in cui si sostanzia il ridisegno neocorporativo dell'insieme delle relazioni sociali. Non è un caso che il governo abbia varato in agosto un taglio micidiale delle risorse per sanità, enti locali, istruzione, lavoro pubblico.
L'accordo separato è destinato ad aggravare la situazione economica e sociale complessiva, perché impoverisce ancora di più i lavoratori, in una crisi che è determinata esattamente dall'acuirsi delle disuguaglianze, da quel "mondo di bassi salari" prodotto da un trentennio di politiche neoliberiste.
La partita non è tuttavia chiusa. Non lo è come non lo fu nel 2002, sebbene sia evidente il quadro peggiore di oggi rispetto a ieri, per la sconfitta della sinistra, per la collocazione del Pd. Non lo è in virtù della tenuta decisiva che la Cgil ha avuto. Non lo è in virtù della disponibilità alla lotta che le lavoratrici e i lavoratori hanno dimostrato, aderendo il 12 dicembre allo sciopero generale della Cgil e dei sindacati di base. Diventa decisiva l'attivazione di una risposta forte nei luoghi di lavoro e nei territori. Una risposta adeguata alla gravità di quanto avvenuto, alla volontà di riscrivere le relazioni sindacali e i rapporti sociali contro la più grande organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori, impoverire e dividere ulteriormente il mondo del lavoro, distruggere ruolo e autonomia del sindacato. Crediamo sia necessaria la costruzione di un nuovo sciopero generale. Crediamo sia obbligatorio il pronunciamento delle lavoratrici e dei lavoratori sull'accordo. Per parte nostra ci saremo. E' in gioco il futuro dei diritti del lavoro e della democrazia.
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